20 luglio 2006
Documentario sull'allungamento della vita (Life Extension)
Bellissimo documentario in inglese sulla Life Extension (allungamento della Vita) sviluppato dall'Immortality Istitute di Atlanta in Georgia, United States. Vengono esposte ricerche scientifiche che porteranno all'allungamento della vita. Altri temi trattati: criogenia, il Transumanismo, la Singolarità, i Cyborg, le Nanotecnologie ed altro ancora.
Video animazione sulle Nanotecnologie
Interessantissimo video-animazione su una "Nanofabrica" prodotto dalla Nanorex in collaborazione con il Foresight Institute . Il video descrive una vista animata di un nanofactory e dimostra i punti chiave di un processo che converte le semplici molecole in un computer. Nel prossimo futuro, questo tipo di tecnologia ci permetterà di creare qualsiasi oggetto, alimento, vestiti ecc.
19 luglio 2006
Qrio e Asimo (robot ballerini) e non solo
Ecco due filmati sui progressi in ambito della robotica. Qrio sviluppato dalla Sony ed Asimo dalla Honda. Nel prossimo futuro, oltre che essere utilizzati in ambito dell'intrattenimento puro, i futuri robot saranno capaci di sostituire l'essere umano nei lavori manuali, permettendo quindi di guadagnare tempo e di gioire sempre più di questo meraviglioso pianeta che è la Terra.
17 luglio 2006
Ecco la proteina "infermiera" così ripara il Dna danneggiato
ROMA - Si fa presto a dire uomo: con 50mila miliardi di cellule, 500 miliardi delle quali vengono sostituite ogni giorno, in teoria basterebbero 100 giorni per fare di noi un'altra persona. E non basta nemmeno considerare il Dna come filo conduttore di una vita: il codice genetico, che si duplica ogni volta che una cellula si scinde, verrebbe stravolto dagli errori di copiatura in pochi giorni, se non fosse per un meccanismo di correzione degli sbagli estremamente efficiente.
È questa struttura la vera custode dell'identità di un individuo, e i ricercatori svedesi del Karolinska Institutet guidati da Camilla Sjögren ne hanno appena svelato una componente fondamentale: il complesso di proteine Smc5/6, capace di individuare gli errori sulla doppia elica e ripararli.
Il complesso interviene in realtà come meccanico di scorta. La prima linea nelle operazioni di riparazione è costituita da una sorta di trenino fatto di enzimi, che percorre la doppia elica come fosse un binario. Laddove incontra delle incongruenze si ferma, apporta le sue correzioni e poi riparte. Ma questo non basta, e dagli sbagli di copiatura non corretti possono nascere malattie come i tumori.
"Una cellula cancerosa - spiega Sjögren, che pubblica la sua ricerca su "Molecular Cell" - spesso ha delle aberrazioni nei cromosomi attribuibili a errori di copiatura". In questi casi è compito di Smc5/6 intervenire: i ricercatori svedesi, nel loro laboratorio, hanno messo le proteine all'opera su frammenti di Dna appositamente danneggiati. "Abbiamo scoperto - commenta Sjögren - uno dei meccanismi essenziali per la nostra stabilità genetica".
Pur essendo molto efficiente, il meccanismo di copiatura dei cromosomi sbaglia una "lettera" ogni milione, laddove il genoma completo ne contiene circa 4 miliardi. "Un numero molto basso di errori, eppure sufficiente ad accumularne 4mila per ogni replicazione. Cioè a far andare alla deriva una vita dopo pochi cicli di divisione cellulare", commenta Ernesto Di Mauro, genetista all'università La Sapienza di Roma e direttore scientifico della fondazione Cenci Bolognetti.
"Il meccanismo di correzione messo in atto dalla natura ha in sé qualcosa di geniale. Gli errori di copiatura infatti non sono necessariamente negativi. È grazie agli sbagli che ci siamo evoluti, passando dallo stato di batteri a quello di uomini". Il doppio meccanismo di correzione, per quanto sofisticato, deve dunque farsi sfuggire un numero infinitesimo e casuale di variazioni. "La strategia di riparazione - prosegue Di Mauro - varia da specie a specie. Nel caso dell'uomo, organismo complesso con una vita media lunga, gli errori devono essere pochi. Il loro numero è invece più grande in esseri semplici come i batteri. Vita molto breve e necessità di adattarsi rapidamente all'ambiente fanno sì che il loro Dna debba essere più mutevole".
Fonte: Repubblica
È questa struttura la vera custode dell'identità di un individuo, e i ricercatori svedesi del Karolinska Institutet guidati da Camilla Sjögren ne hanno appena svelato una componente fondamentale: il complesso di proteine Smc5/6, capace di individuare gli errori sulla doppia elica e ripararli.
Il complesso interviene in realtà come meccanico di scorta. La prima linea nelle operazioni di riparazione è costituita da una sorta di trenino fatto di enzimi, che percorre la doppia elica come fosse un binario. Laddove incontra delle incongruenze si ferma, apporta le sue correzioni e poi riparte. Ma questo non basta, e dagli sbagli di copiatura non corretti possono nascere malattie come i tumori.
"Una cellula cancerosa - spiega Sjögren, che pubblica la sua ricerca su "Molecular Cell" - spesso ha delle aberrazioni nei cromosomi attribuibili a errori di copiatura". In questi casi è compito di Smc5/6 intervenire: i ricercatori svedesi, nel loro laboratorio, hanno messo le proteine all'opera su frammenti di Dna appositamente danneggiati. "Abbiamo scoperto - commenta Sjögren - uno dei meccanismi essenziali per la nostra stabilità genetica".
Pur essendo molto efficiente, il meccanismo di copiatura dei cromosomi sbaglia una "lettera" ogni milione, laddove il genoma completo ne contiene circa 4 miliardi. "Un numero molto basso di errori, eppure sufficiente ad accumularne 4mila per ogni replicazione. Cioè a far andare alla deriva una vita dopo pochi cicli di divisione cellulare", commenta Ernesto Di Mauro, genetista all'università La Sapienza di Roma e direttore scientifico della fondazione Cenci Bolognetti.
"Il meccanismo di correzione messo in atto dalla natura ha in sé qualcosa di geniale. Gli errori di copiatura infatti non sono necessariamente negativi. È grazie agli sbagli che ci siamo evoluti, passando dallo stato di batteri a quello di uomini". Il doppio meccanismo di correzione, per quanto sofisticato, deve dunque farsi sfuggire un numero infinitesimo e casuale di variazioni. "La strategia di riparazione - prosegue Di Mauro - varia da specie a specie. Nel caso dell'uomo, organismo complesso con una vita media lunga, gli errori devono essere pochi. Il loro numero è invece più grande in esseri semplici come i batteri. Vita molto breve e necessità di adattarsi rapidamente all'ambiente fanno sì che il loro Dna debba essere più mutevole".
Fonte: Repubblica
13 luglio 2006
Chip nel cervello, tetraplegico muove oggetti
Vi ricordate l'anno scorso dell'esperimento della Cyberkinetics su un ragazzo paraplegico di nome, Matthew Nagle. Ebbene ora sulla rivista Nature, esce uno special su qell'esperimento. Chi volesse vedere anche i video basta cliccare sul link che ho messo alla fine della pagina
MILANO — Matthew Nagle è il primo uomo al mondo che è riuscito, con la sola forza del pensiero, ad aprire e leggere una mail, a giocare con un videogame, a regolare il volume del televisore e, soprattutto, a controllare un arto-robot. È il primo tetraplegico nella storia della medicina che, grazie a un neurochip impiantato nel cervello, è diventato il protagonista di un esperimento che ha conquistato, questa settimana, la copertina della rivista Nature. Il viaggio di Matt verso le nuove frontiere della scienza comincia il 4 luglio del 2001 su una spiaggia del Massachusetts, a Weymouth: scoppia una rissa dove è coinvolto un suo amico, e Matt tenta di difenderlo. I pugni volano e tutti gridano, poi all'improvviso più nulla: Matt si trova un coltello conficcato nel collo fin dentro alla spina dorsale. Da ex idolo del football della locale scuola superiore, si ritrova, a 20 anni, paralizzato, gambe e braccia. Così decide di tentare l'esperimento. Nel 2004 il neurochirurgo Gerhard Friehs del Rhode Island Hospital, a Providence, gli impianta sulla parte di corteccia cerebrale che controlla i movimenti il BrainGate: si tratta di una «protesi neuromotoria», grande quattro millimetri per quattro, con cento elettrodi più piccoli di un capello, capace di mettere in comunicazione il suo cervello con gli oggetti del mondo esterno.
Da quel momento Matt si sottopone, al New England Sinai Hospital, a una serie di sedute di prova (57 in tutto) che vengono adesso raccontate dalla rivista scientifica. Lo stesso numero di Nature riferisce anche di un altro paziente, un uomo di 55 anni con lo stesso tipo di problema, attualmente seguito all'Università di Chicago e di un terzo che non riesce a parlare in seguito a un ictus. A questi si aggiungeranno altre persone affette da due malattie neuromuscolari, la distrofia e la sindrome laterale amiotrofica. «Il cervello di persone paralizzate anche da tempo — spiega John Donoghue, della Brown University di Providence, uno degli autori della ricerca — può generare, nell'area responsabile dei movimenti volontari, segnali che possono essere trasformati in azione: il paziente riesce così a compiere qualche semplice attività. Ecco come si procede: durante la seduta chiediamo al paziente di immaginare di muovere una mano come se dovesse controllare il mouse di un computer e registriamo quello che succede nella sua corteccia motoria. Poi studiamo questi segnali, che risultano diversi a seconda di quello che si pensa di fare; li filtriamo e trasformiamo una successione di impulsi nervosi in comandi bidimensionali che si traducono poi in azione. Con il solo pensiero si può persino muovere un arto artificiale».
Matt ci è riuscito. È riuscito ad aprire e chiudere le dita di una mano meccanica e ad usarla per afferrare e stringere oggetti: e questo è l'ultimo e più interessante risultato dell'esperimento. BrainGate, per ilmomento, è ben lontano dall'essere perfetto: è ancora troppo grosso e ingombrante e la qualità del segnale varia da paziente a paziente e da giorno a giorno. È indispensabile lavorare per aumentarne la durata e l'affidabilità. Matthew, e tutti gli altri pazienti che lo stanno provando, sanno benissimo di essere dei pionieri, ma sperano nel futuro. I ricercatori sono convinti che questa tecnologia potrà permettere non soltanto di usare un computer, di controllare arti artificiali, di muovere una sedia a rotelle soltanto «pensando» di farlo, ma anche di ristabilire un controllo diretto del cervello sul muscolo. Come? Costruendo stimolatori muscolari capaci di «ricevere» l'input dal cervello (attraverso BrainGate e non attraverso i nervi come avviene normalmente) e di trasmetterlo direttamente al muscolo che il paziente vuole muovere.
Fonte: Corriere della Sera
MILANO — Matthew Nagle è il primo uomo al mondo che è riuscito, con la sola forza del pensiero, ad aprire e leggere una mail, a giocare con un videogame, a regolare il volume del televisore e, soprattutto, a controllare un arto-robot. È il primo tetraplegico nella storia della medicina che, grazie a un neurochip impiantato nel cervello, è diventato il protagonista di un esperimento che ha conquistato, questa settimana, la copertina della rivista Nature. Il viaggio di Matt verso le nuove frontiere della scienza comincia il 4 luglio del 2001 su una spiaggia del Massachusetts, a Weymouth: scoppia una rissa dove è coinvolto un suo amico, e Matt tenta di difenderlo. I pugni volano e tutti gridano, poi all'improvviso più nulla: Matt si trova un coltello conficcato nel collo fin dentro alla spina dorsale. Da ex idolo del football della locale scuola superiore, si ritrova, a 20 anni, paralizzato, gambe e braccia. Così decide di tentare l'esperimento. Nel 2004 il neurochirurgo Gerhard Friehs del Rhode Island Hospital, a Providence, gli impianta sulla parte di corteccia cerebrale che controlla i movimenti il BrainGate: si tratta di una «protesi neuromotoria», grande quattro millimetri per quattro, con cento elettrodi più piccoli di un capello, capace di mettere in comunicazione il suo cervello con gli oggetti del mondo esterno.
Da quel momento Matt si sottopone, al New England Sinai Hospital, a una serie di sedute di prova (57 in tutto) che vengono adesso raccontate dalla rivista scientifica. Lo stesso numero di Nature riferisce anche di un altro paziente, un uomo di 55 anni con lo stesso tipo di problema, attualmente seguito all'Università di Chicago e di un terzo che non riesce a parlare in seguito a un ictus. A questi si aggiungeranno altre persone affette da due malattie neuromuscolari, la distrofia e la sindrome laterale amiotrofica. «Il cervello di persone paralizzate anche da tempo — spiega John Donoghue, della Brown University di Providence, uno degli autori della ricerca — può generare, nell'area responsabile dei movimenti volontari, segnali che possono essere trasformati in azione: il paziente riesce così a compiere qualche semplice attività. Ecco come si procede: durante la seduta chiediamo al paziente di immaginare di muovere una mano come se dovesse controllare il mouse di un computer e registriamo quello che succede nella sua corteccia motoria. Poi studiamo questi segnali, che risultano diversi a seconda di quello che si pensa di fare; li filtriamo e trasformiamo una successione di impulsi nervosi in comandi bidimensionali che si traducono poi in azione. Con il solo pensiero si può persino muovere un arto artificiale».
Matt ci è riuscito. È riuscito ad aprire e chiudere le dita di una mano meccanica e ad usarla per afferrare e stringere oggetti: e questo è l'ultimo e più interessante risultato dell'esperimento. BrainGate, per ilmomento, è ben lontano dall'essere perfetto: è ancora troppo grosso e ingombrante e la qualità del segnale varia da paziente a paziente e da giorno a giorno. È indispensabile lavorare per aumentarne la durata e l'affidabilità. Matthew, e tutti gli altri pazienti che lo stanno provando, sanno benissimo di essere dei pionieri, ma sperano nel futuro. I ricercatori sono convinti che questa tecnologia potrà permettere non soltanto di usare un computer, di controllare arti artificiali, di muovere una sedia a rotelle soltanto «pensando» di farlo, ma anche di ristabilire un controllo diretto del cervello sul muscolo. Come? Costruendo stimolatori muscolari capaci di «ricevere» l'input dal cervello (attraverso BrainGate e non attraverso i nervi come avviene normalmente) e di trasmetterlo direttamente al muscolo che il paziente vuole muovere.
Fonte: Corriere della Sera
07 luglio 2006
Svizzera. Figli su misura ed altri approcci terapeutici
Ha suscitato scalpore la nascita di Elodie, probabile primo bebè terapeutico svizzero. Elodie e' una "bambina su misura", scelta, attraverso la selezione degli embrioni, come donatrice di midollo osseo per il fratello colpito da grave deficienza immunitaria.
Il primo design baby e' nato pero' alcuni anni fa in Inghilterra con l'autorizzazione della locale commissione etica. In teoria -scrupoli etici a parte-, si potrebbero "produrre" bambini donatori di reni o di una parte del fegato da trapiantare non solo ai fratelli ma ad altri familiari. Chi riflette sui bebè terapeutici, forse si chiede quali altre possibilita' ci sarebbero per ottenere cellule staminali compatibili. Per l'esperto di cellule staminaliAlois Gratwohl, della clinica universitaria di Basilea, la risposta e' semplice: se si reperiscono cellule staminali dal cordone ombelicale provenienti da fratelli con lo stesso sistema Hla (antigeni umani leucocitari) o sistema di istocompatibilita', disponiamo della migliore fonte possibile, essendo queste cellule superiori delle staminali ottenibili dal midollo osseo o dal sangue.
Questo perche' le cellule di un neonato non hanno pressoché contatti con microrganismi, quindi sono meno aggressivi dal punto di vista immunologico. Ma buoni risultati si possono ottenere anche con familiari o estranei aventi lo stesso sistema Hla. Questi ultimi si possono cercare in ogni parte del mondo grazie al registro delle cellule staminali. Oggi sono dieci milioni le persone registrare e disponibili, in caso di necessita', a donare le cellule staminali. Inoltre, esiste una riserva di sangue cordonale di duecentomila neonati. Gratwohl chiarisce che il rapporto attuale e' di un donatore compatibile ogni due pazienti. Se non tutti possono contare su un donatore compatibile, e' perche' esistono dei tipi Hla piu' frequenti e altri molto rari. C'e' una regola molto semplice: maggiore e' la compatibilita' tra donatore e ricevente e migliore e' il risultato dell'intervento. Malgrado cio', un terzo dei trapianti con cellule staminali avviene anche in mancanza di donatori compatibili. Addirittura, in alcune circostanze le staminali di un donatore non istocompatibile danno dei vantaggi, ossia degli effetti migliori contro la malattia genetica. E' ovvio, chiosa Gratwohl, che bisogna valutare caso per caso quali possano essere rischi e benefici di ogni opzione terapeutica.
Altri possibili trattamenti su malati bisognosi di cellule staminali potrebbero essere, almeno in ipotesi, una terapia genetica e la clonazione terapeutica. Solo che, a differenza del trapianto di staminali da fonti consolidate, questi metodi sono ancora in una fase concettualmente sperimentale. Ma, in base alle sperimentazioni animali, si puo' immaginare che siano interventi fattibili. In questo caso si toglierebbe dal paziente una cellula somatica per fonderla con un ovocita privato dal nucleo, e tramite opportune stimolazione s'indurrebbero le cellule a dividersi. Sostituendo il gene malato con una variante sana, si svilupperebbe un embrione, da cui ricavare cellule staminali da coltivare e utilizzare nel trattamento. Gratwohl ammette che si sa ancora troppo poco se un simile scenario possa funzionare anche sull'uomo o se si dovra' fare i conti con nuovi problemi inediti. Ci sono indizi a favore dell'ipotesi, secondo cui per la clonazione terapeutica non sia indispensabile un ovocita privato del nucleo; il procedimento potrebbe funzionare anche con cellule staminali embrionali o con il citoplasma, visto che sono determinati componenti del citoplasma a consentire la riprogrammazione e quindi la clonazione. Gratwohl e' sicuro che queste sostanze saranno identificate tra non molto. Tutto cio', a dimostrazione di quanti passi avanti riesca a fare la medicina riproduttiva e a quali livelli si muove la ricerca -a prescindere dal dibattito in corso nell'opinione pubblica e tra i legislatori sul valore e il significato della diagnosi preimpianto.
Fonte: Cellule staminali
Il primo design baby e' nato pero' alcuni anni fa in Inghilterra con l'autorizzazione della locale commissione etica. In teoria -scrupoli etici a parte-, si potrebbero "produrre" bambini donatori di reni o di una parte del fegato da trapiantare non solo ai fratelli ma ad altri familiari. Chi riflette sui bebè terapeutici, forse si chiede quali altre possibilita' ci sarebbero per ottenere cellule staminali compatibili. Per l'esperto di cellule staminaliAlois Gratwohl, della clinica universitaria di Basilea, la risposta e' semplice: se si reperiscono cellule staminali dal cordone ombelicale provenienti da fratelli con lo stesso sistema Hla (antigeni umani leucocitari) o sistema di istocompatibilita', disponiamo della migliore fonte possibile, essendo queste cellule superiori delle staminali ottenibili dal midollo osseo o dal sangue.
Questo perche' le cellule di un neonato non hanno pressoché contatti con microrganismi, quindi sono meno aggressivi dal punto di vista immunologico. Ma buoni risultati si possono ottenere anche con familiari o estranei aventi lo stesso sistema Hla. Questi ultimi si possono cercare in ogni parte del mondo grazie al registro delle cellule staminali. Oggi sono dieci milioni le persone registrare e disponibili, in caso di necessita', a donare le cellule staminali. Inoltre, esiste una riserva di sangue cordonale di duecentomila neonati. Gratwohl chiarisce che il rapporto attuale e' di un donatore compatibile ogni due pazienti. Se non tutti possono contare su un donatore compatibile, e' perche' esistono dei tipi Hla piu' frequenti e altri molto rari. C'e' una regola molto semplice: maggiore e' la compatibilita' tra donatore e ricevente e migliore e' il risultato dell'intervento. Malgrado cio', un terzo dei trapianti con cellule staminali avviene anche in mancanza di donatori compatibili. Addirittura, in alcune circostanze le staminali di un donatore non istocompatibile danno dei vantaggi, ossia degli effetti migliori contro la malattia genetica. E' ovvio, chiosa Gratwohl, che bisogna valutare caso per caso quali possano essere rischi e benefici di ogni opzione terapeutica.
Altri possibili trattamenti su malati bisognosi di cellule staminali potrebbero essere, almeno in ipotesi, una terapia genetica e la clonazione terapeutica. Solo che, a differenza del trapianto di staminali da fonti consolidate, questi metodi sono ancora in una fase concettualmente sperimentale. Ma, in base alle sperimentazioni animali, si puo' immaginare che siano interventi fattibili. In questo caso si toglierebbe dal paziente una cellula somatica per fonderla con un ovocita privato dal nucleo, e tramite opportune stimolazione s'indurrebbero le cellule a dividersi. Sostituendo il gene malato con una variante sana, si svilupperebbe un embrione, da cui ricavare cellule staminali da coltivare e utilizzare nel trattamento. Gratwohl ammette che si sa ancora troppo poco se un simile scenario possa funzionare anche sull'uomo o se si dovra' fare i conti con nuovi problemi inediti. Ci sono indizi a favore dell'ipotesi, secondo cui per la clonazione terapeutica non sia indispensabile un ovocita privato del nucleo; il procedimento potrebbe funzionare anche con cellule staminali embrionali o con il citoplasma, visto che sono determinati componenti del citoplasma a consentire la riprogrammazione e quindi la clonazione. Gratwohl e' sicuro che queste sostanze saranno identificate tra non molto. Tutto cio', a dimostrazione di quanti passi avanti riesca a fare la medicina riproduttiva e a quali livelli si muove la ricerca -a prescindere dal dibattito in corso nell'opinione pubblica e tra i legislatori sul valore e il significato della diagnosi preimpianto.
Fonte: Cellule staminali
La nuova internet passa per gli odori
Un team giapponese lavora su un naso elettronico: dicono che rispetto ad altri cybersniffatori questo sia superiore. Percepisce un alto numero di aromi ed è in grado di riprodurli identici a comando
Tokyo - Gli ingegneri dell'Istituto di tecnologia di Tokyo hanno elaborato uno strumento che, oltre ad avere la funzione di riconoscitore olfattivo, sarà in grado di riprodurre svariati tipi di odori attraverso l'uso di alcuni prodotti chimici, trasformandosi in una sorta di registratore di odori.
L'ennesimo sistema di questo genere? Da tempo vengono sviluppati in mezzo mondo, Italia compresa, nuove forme di nasi elettronici, strumenti capaci di distinguere vari tipi di odori, persino quelli legati a certe specifiche patologie. La particolarità dell'iniziativa giapponese, secondo il capoprogetto Pambuk Somboon, starebbe nell'affinata capacità della macchina di riconoscere e riprodurre un'ampia gamma di odori.
Il sistema sviluppato dal team di Somboon utilizza quindici microchip che hanno la funzione di recepire gli aromi. Questi elementi a loro volta formano un "recipente" di circa 96 principi chimici con i quali poi sarà possibile ricreare un particolare odore. Per far comprendere la complessità della cosa, Somboon ricorre ad un paragone invero un po' sbilenco con una videocamera: nelle registrazioni visive - spiega - vengono presi in considerazione i colori primari, ovvero giallo blu e rosso, mentre nel caso di questo "alitatore elettronico" è necessario riprodurre almeno in parte i 347 sensori olfattivi presenti negli esseri umani.
L'equipe di tecnici giapponesi afferma di aver generato alcuni odori che sul piano tecnico presentano particolari difficoltà: sostengono di essere in grado di riprodurre fedelmente sia l'aroma della mela verde, sia quello della mela rossa. Si tratterebbe di qualcosa di più specifico e raffinato di altre tecnologie, come quelle che vorrebbero riportare l'odorama nei cinema o sui siti web.
A cosa può servire un fiuto particolarmente sviluppato e la capacità di riprodurre quanto percepito? Le parole di Samboon assomigliano a quelle già sentite in altre occasioni, si parla di rivoluzione del mercato web, perché sarà possibile sentire l'odore di ciò che si compra online. Ma servirebbe anche in ambito medico nelle nuove operazioni a distanza, in cui il chirurgo non si trovi a contatto con il paziente ma necessiti di annusarlo.
Qualche interesse il lavoro di Samboon e soci sta suscitando. Stephen Brewster, dell'Università di Glasgow in Scozia, ha già dichiarato di volerne sapere di più: un naso elettronico finalmente efficiente, accoppiato ad un riproduttore di odori ugualmente sofisticato, profetizza, aprirebbe le porte ad una "nuova internet".
Fonte: Punto informatico
Il sistema sviluppato dal team di Somboon utilizza quindici microchip che hanno la funzione di recepire gli aromi. Questi elementi a loro volta formano un "recipente" di circa 96 principi chimici con i quali poi sarà possibile ricreare un particolare odore. Per far comprendere la complessità della cosa, Somboon ricorre ad un paragone invero un po' sbilenco con una videocamera: nelle registrazioni visive - spiega - vengono presi in considerazione i colori primari, ovvero giallo blu e rosso, mentre nel caso di questo "alitatore elettronico" è necessario riprodurre almeno in parte i 347 sensori olfattivi presenti negli esseri umani.
L'equipe di tecnici giapponesi afferma di aver generato alcuni odori che sul piano tecnico presentano particolari difficoltà: sostengono di essere in grado di riprodurre fedelmente sia l'aroma della mela verde, sia quello della mela rossa. Si tratterebbe di qualcosa di più specifico e raffinato di altre tecnologie, come quelle che vorrebbero riportare l'odorama nei cinema o sui siti web.
A cosa può servire un fiuto particolarmente sviluppato e la capacità di riprodurre quanto percepito? Le parole di Samboon assomigliano a quelle già sentite in altre occasioni, si parla di rivoluzione del mercato web, perché sarà possibile sentire l'odore di ciò che si compra online. Ma servirebbe anche in ambito medico nelle nuove operazioni a distanza, in cui il chirurgo non si trovi a contatto con il paziente ma necessiti di annusarlo.
Qualche interesse il lavoro di Samboon e soci sta suscitando. Stephen Brewster, dell'Università di Glasgow in Scozia, ha già dichiarato di volerne sapere di più: un naso elettronico finalmente efficiente, accoppiato ad un riproduttore di odori ugualmente sofisticato, profetizza, aprirebbe le porte ad una "nuova internet".
Fonte: Punto informatico
29 giugno 2006
Londra, il pc-strizzacervelli che legge le nostre emozioni
Sarà presentato in una mostra un computer che collegato a una fotocamera promette di leggere espressioni e sensazioni.
LONDRA - Indovinare l'attimo prima della goccia che fa traboccare il vaso. O cogliere alla sprovvista chi crede di farci fessi con un sorriso. Tutti abbiamo provato a leggere nel pensiero di chi ci stava di fronte. Qualche volta ci riusciamo, più spesso no. Da ora, però, sarà un computer a farlo.
Il sistema intelligente messo a punto dagli informatici dell'università di Cambridge che promette di decodificare le espressioni del viso, proponendosi ricadute ludiche, commerciali ma anche mediche, sarà presentato il prossimo 3 luglio a Londra alla mostra della Royal Society Summer Science Exhibition.
Le prime anime ad essere "scandagliate" saranno quelle dei visitatori, invitati dagli stessi programmatori a contribuire "ad addestrare" il computer offrendogli espressioni ed emozioni di gioia, rabbia, noia e chissà cos'altro.
A fare il lavoro maggiore sarà una macchina fotografica collegata all'avveniristico apparecchio che individuerà le 24 "caratteristiche facciali" determinanti dell'espressione, dal bordo del naso, alle sopracciglia passando per l'inclinazione degli angoli della bocca. E nessuno potrà più nascondere segreti.
Il sistema, infatti, si districherà tra le combinazioni dei movimenti facciali difficilmente controllabili razionalmente e coglierà dal vivo le emozioni più recondite. Secondo Peter Robinson, professore di tecnologia dell'informatica all'università di Cambridge "ci sono piccole differenze nel modo con cui la gente esprime la stessa emozione, che difficilmente si leggono ad occhio nudo".
E già si pensa ai possibili utilizzi commerciali. Primo tra tutti, per esempio, scoprire quando cogliere il momento giusto per vendere qualcosa a qualcuno. Ma non solo. Gli informatici impegnati nel progetto promettono di poter migliorare la sicurezza al volante, creando una sorta di banca dati elettronica che contenga le espressioni in situazioni di confusione, stanchezza e disorientamento. "Stiamo lavorando con i volontari - continua Robinson - e con una grande azienda di automobili, prevediamo che il sistema sarà impiegato entro cinque anni".
Una versione portatile aiuterà invece gli affetti da autismo e da sindrome di Asperger. Progettata insieme ai colleghi del Massachusetts Institute of Technology, leggerà le espressioni facciali e delle emozioni.
Gli scienziati hanno messo a punto il sistema anche grazie alla collaborazione di un gruppo di attori. E pensano a immettere la loro invenzione in Rete. "Per esempio - ha spiegato Robinson - il software collegato ad un webcam potrebbe scannerizzare l'immagine della persona, codificarla e trasmettere le informazioni al sito pubblicitario in grado, a questo punto, di proporgli il prodotto più calzante".
Fonte: Repubblica
LONDRA - Indovinare l'attimo prima della goccia che fa traboccare il vaso. O cogliere alla sprovvista chi crede di farci fessi con un sorriso. Tutti abbiamo provato a leggere nel pensiero di chi ci stava di fronte. Qualche volta ci riusciamo, più spesso no. Da ora, però, sarà un computer a farlo.
Il sistema intelligente messo a punto dagli informatici dell'università di Cambridge che promette di decodificare le espressioni del viso, proponendosi ricadute ludiche, commerciali ma anche mediche, sarà presentato il prossimo 3 luglio a Londra alla mostra della Royal Society Summer Science Exhibition.
Le prime anime ad essere "scandagliate" saranno quelle dei visitatori, invitati dagli stessi programmatori a contribuire "ad addestrare" il computer offrendogli espressioni ed emozioni di gioia, rabbia, noia e chissà cos'altro.
A fare il lavoro maggiore sarà una macchina fotografica collegata all'avveniristico apparecchio che individuerà le 24 "caratteristiche facciali" determinanti dell'espressione, dal bordo del naso, alle sopracciglia passando per l'inclinazione degli angoli della bocca. E nessuno potrà più nascondere segreti.
Il sistema, infatti, si districherà tra le combinazioni dei movimenti facciali difficilmente controllabili razionalmente e coglierà dal vivo le emozioni più recondite. Secondo Peter Robinson, professore di tecnologia dell'informatica all'università di Cambridge "ci sono piccole differenze nel modo con cui la gente esprime la stessa emozione, che difficilmente si leggono ad occhio nudo".
E già si pensa ai possibili utilizzi commerciali. Primo tra tutti, per esempio, scoprire quando cogliere il momento giusto per vendere qualcosa a qualcuno. Ma non solo. Gli informatici impegnati nel progetto promettono di poter migliorare la sicurezza al volante, creando una sorta di banca dati elettronica che contenga le espressioni in situazioni di confusione, stanchezza e disorientamento. "Stiamo lavorando con i volontari - continua Robinson - e con una grande azienda di automobili, prevediamo che il sistema sarà impiegato entro cinque anni".
Una versione portatile aiuterà invece gli affetti da autismo e da sindrome di Asperger. Progettata insieme ai colleghi del Massachusetts Institute of Technology, leggerà le espressioni facciali e delle emozioni.
Gli scienziati hanno messo a punto il sistema anche grazie alla collaborazione di un gruppo di attori. E pensano a immettere la loro invenzione in Rete. "Per esempio - ha spiegato Robinson - il software collegato ad un webcam potrebbe scannerizzare l'immagine della persona, codificarla e trasmettere le informazioni al sito pubblicitario in grado, a questo punto, di proporgli il prodotto più calzante".
Fonte: Repubblica
Ricercatori italiani fanno «ricrescere» nervi
Antonio Iavarone e Anna Lasorella, che lavorano a New York, hanno ottenuto per la prima volta la rigenerazione degli «assoni»
NEW YORK - Ricercatori italiani hanno dimostrato per la prima volta una connessione tra i meccanismi che promuovono la crescita dei tumori e quelli che stimolano la rigenerazione delle fibre nervose. Il loro studio verrà pubblicato domani sulla prestigiosa rivista Nature. Antonio Iavarone e Anna Lasorella, che lavorano alla Columbia University di New York, in particolare, sono riusciti a «far ricrescere» in laboratorio fibre nervose la cui crescita era stata bloccata.
«E' qualcosa di completamente inatteso e sorprendente» spiega Antonio Iavarone. «Il nostro interesse era quello di approfondire la conoscenza di alcune proteine della famiglia "Id" già note per la loro capacità di promuovere la crescita delle cellule staminali durante il periodo fetale, ma anche per la possibilità, a elevate concentrazioni, di conferire caratteristiche di malignità ad alcuni tumori infantili del sistema nervoso». Questa proteina,invece, nelle cellule nervose mature normali è continuamente distrutta da un enzima chiamato APC (Anaphase Promoting Complex) e quindi non si accumula. «In laboratorio noi abbiamo provato a inserire una forma modificata di Id2, resistente questo enzima in cellule nervose trattate con la sostanza che normalmente ne inibisce la crescita nota come mielina» spiega Iavarone. «E abbiamo constatato una incredibile ricrescita degli assoni, i filamenti che trasferiscono le informazioni (sotto forma di segnali elettrici) tra le cellule nervose oppure dalle cellule nervose agli altri tessuti, per esempio i muscoli». «Dal punto di vista scientifico si tratta di una scoperta sensazionale,perché ora si apre la prospettiva di riprogrammare le cellule nervose e far crescere gli assoni usando la forma modificata di Id2».
La scoperta potrebbe quindi aprire nuove possibilità per il trattamento delle lesioni del midollo spinale? «Dev'essere chiaro che non abbiamo un nuovo farmaco per la cura dei medullolesi» precisa Iavarone, «Ma dal punto di vista speculativo è certamente un progresso di rilievo. Anche perché finora erano andati incontro a fallimenti praticamente tutti i tentativi di far ricrescere gli assoni, perché la mielina, cioè la sostanza di cui gli assoni sono rivestiti, ha una funzione inibitoria su questa ricrescita, e invece la proteina che abbiamo utilizzato è insensibile a questo effetto».
Nessun pericolo di indurre tumori? «E' chiaro che per affermarlo con certezza sarebbe necessario provare questo metodo in vivo su molti pazienti. Per ora possiamo solo dire che non abbiamo notato anomalie nei tessuti che abbiamo trattato. Ma è chiaro che se la Id2 è dotata di simili effetti una sua eventuale applicazione dovrà essere sottoposta a scrupolose verifiche».
Fonte: Corriere della Sera
NEW YORK - Ricercatori italiani hanno dimostrato per la prima volta una connessione tra i meccanismi che promuovono la crescita dei tumori e quelli che stimolano la rigenerazione delle fibre nervose. Il loro studio verrà pubblicato domani sulla prestigiosa rivista Nature. Antonio Iavarone e Anna Lasorella, che lavorano alla Columbia University di New York, in particolare, sono riusciti a «far ricrescere» in laboratorio fibre nervose la cui crescita era stata bloccata.
«E' qualcosa di completamente inatteso e sorprendente» spiega Antonio Iavarone. «Il nostro interesse era quello di approfondire la conoscenza di alcune proteine della famiglia "Id" già note per la loro capacità di promuovere la crescita delle cellule staminali durante il periodo fetale, ma anche per la possibilità, a elevate concentrazioni, di conferire caratteristiche di malignità ad alcuni tumori infantili del sistema nervoso». Questa proteina,invece, nelle cellule nervose mature normali è continuamente distrutta da un enzima chiamato APC (Anaphase Promoting Complex) e quindi non si accumula. «In laboratorio noi abbiamo provato a inserire una forma modificata di Id2, resistente questo enzima in cellule nervose trattate con la sostanza che normalmente ne inibisce la crescita nota come mielina» spiega Iavarone. «E abbiamo constatato una incredibile ricrescita degli assoni, i filamenti che trasferiscono le informazioni (sotto forma di segnali elettrici) tra le cellule nervose oppure dalle cellule nervose agli altri tessuti, per esempio i muscoli». «Dal punto di vista scientifico si tratta di una scoperta sensazionale,perché ora si apre la prospettiva di riprogrammare le cellule nervose e far crescere gli assoni usando la forma modificata di Id2».
La scoperta potrebbe quindi aprire nuove possibilità per il trattamento delle lesioni del midollo spinale? «Dev'essere chiaro che non abbiamo un nuovo farmaco per la cura dei medullolesi» precisa Iavarone, «Ma dal punto di vista speculativo è certamente un progresso di rilievo. Anche perché finora erano andati incontro a fallimenti praticamente tutti i tentativi di far ricrescere gli assoni, perché la mielina, cioè la sostanza di cui gli assoni sono rivestiti, ha una funzione inibitoria su questa ricrescita, e invece la proteina che abbiamo utilizzato è insensibile a questo effetto».
Nessun pericolo di indurre tumori? «E' chiaro che per affermarlo con certezza sarebbe necessario provare questo metodo in vivo su molti pazienti. Per ora possiamo solo dire che non abbiamo notato anomalie nei tessuti che abbiamo trattato. Ma è chiaro che se la Id2 è dotata di simili effetti una sua eventuale applicazione dovrà essere sottoposta a scrupolose verifiche».
Fonte: Corriere della Sera
Autoriparato il cervello dei topi dopo un danno da ictus
ROMA - L'autoriparazione del sistema nervoso dopo un ictus sembra possibile, almeno negli animali, con un piccolo "aiutino" dall'esterno che induce le cellule staminali neurali a formare nuove cellule nervose riparatrici della lesione.
Secondo quanto riferito sulla rivista Nature, da un gruppo di ricercatori americani, l'infusione di una molecola-interruttore nel cervello di topolini colpiti da ictus è riuscita ad attivare un processo di autoriparazione del sistema nervoso scongiurando i problemi motori tipici che avvengono inesorabilmente dopo un'ischemia cerebrale. E così, ha spiegato Ronald McKay del National Institute of Neurological Disorders and Stroke, Bethesda, nel cervello dei topolini utilizzati nell'esperimento si è avuto un aumento considerevole della formazione di nuove cellule, generate dalla attivazione delle staminali nervose indotto dalla somministrazione della sostanza-interruttore.
Il traguardo raggiunto dagli scienziati americani è importantissimo in quanto mostra la possibilità di stimolare dall'esterno le cellule staminali adulte normalmente presenti nel nostro corpo inducendole a riparare un danno. Negli ultimi anni non sono stati pochi i risultati collezionati da gruppi di ricerca di tutto il mondo nei primi tentativi di laboratorio di rigenerate tessuti o organi usando cellule staminali. Ma si lavora alacremente anche allo sviluppo di terapie che inducano le nostre riserve di staminali adulte a riparare un tessuto danneggiato. Ciò per esempio si comincia a sperimentare sui pazienti con deficit funzionali cardiaci grazie alla scoperta di staminali cardiache. Anche il cervello ha la propria riserva di staminali adulte ma finora per curare malattie neurodegenerative il grosso del lavoro si concentra soprattutto su esperimenti di trapianto cellulare. La strada percorsa dagli scienziati di Bethesda aveva l'obiettivo di indurre un processo di autoriparazione dopo un ictus che di norma negli uomini causa morte dei neuroni e conseguenti problemi funzionali, spesso motori o linguistici.
Usando il modello sperimentale di un ictus nei topolini i ricercatori hanno cercato di attivare dall'esterno le cellule staminali neurali, somministrando agli animali per infusione una molecola che accende il recettore Notch delle cellule staminali stesse. Questo recettore è un interruttore cruciale per la sopravvivenza delle cellule staminali sia adulte sia dell'embrione.
Attivando Notch, gli esperti hanno assistito ad un aumento consistente di nuove cellule nervose nelle aree cerebrali colpite da ischemia e in corrispondenza di ciò i topolini non hanno mostrato i segni clinici dell'ictus, quindi non hanno manifestato deficit motori altrimenti inevitabili.
"Questi dati indicano che l'espansione delle cellule staminali in provetta e in vivo, due obiettivi centrali nella medicina rigenerativa, può essere raggiunta attraverso l'attivazione di Notch", ha dichiarato McKay. Ipoteticamente un giorno potrebbe essere possibile somministrare farmaci di "primo soccorso" dopo un ictus o un infarto per indurre processi autoriparativi ed evitare i danni che seguono a questi incidenti vascolari.
Fonte: Ansa
Secondo quanto riferito sulla rivista Nature, da un gruppo di ricercatori americani, l'infusione di una molecola-interruttore nel cervello di topolini colpiti da ictus è riuscita ad attivare un processo di autoriparazione del sistema nervoso scongiurando i problemi motori tipici che avvengono inesorabilmente dopo un'ischemia cerebrale. E così, ha spiegato Ronald McKay del National Institute of Neurological Disorders and Stroke, Bethesda, nel cervello dei topolini utilizzati nell'esperimento si è avuto un aumento considerevole della formazione di nuove cellule, generate dalla attivazione delle staminali nervose indotto dalla somministrazione della sostanza-interruttore.
Il traguardo raggiunto dagli scienziati americani è importantissimo in quanto mostra la possibilità di stimolare dall'esterno le cellule staminali adulte normalmente presenti nel nostro corpo inducendole a riparare un danno. Negli ultimi anni non sono stati pochi i risultati collezionati da gruppi di ricerca di tutto il mondo nei primi tentativi di laboratorio di rigenerate tessuti o organi usando cellule staminali. Ma si lavora alacremente anche allo sviluppo di terapie che inducano le nostre riserve di staminali adulte a riparare un tessuto danneggiato. Ciò per esempio si comincia a sperimentare sui pazienti con deficit funzionali cardiaci grazie alla scoperta di staminali cardiache. Anche il cervello ha la propria riserva di staminali adulte ma finora per curare malattie neurodegenerative il grosso del lavoro si concentra soprattutto su esperimenti di trapianto cellulare. La strada percorsa dagli scienziati di Bethesda aveva l'obiettivo di indurre un processo di autoriparazione dopo un ictus che di norma negli uomini causa morte dei neuroni e conseguenti problemi funzionali, spesso motori o linguistici.
Usando il modello sperimentale di un ictus nei topolini i ricercatori hanno cercato di attivare dall'esterno le cellule staminali neurali, somministrando agli animali per infusione una molecola che accende il recettore Notch delle cellule staminali stesse. Questo recettore è un interruttore cruciale per la sopravvivenza delle cellule staminali sia adulte sia dell'embrione.
Attivando Notch, gli esperti hanno assistito ad un aumento consistente di nuove cellule nervose nelle aree cerebrali colpite da ischemia e in corrispondenza di ciò i topolini non hanno mostrato i segni clinici dell'ictus, quindi non hanno manifestato deficit motori altrimenti inevitabili.
"Questi dati indicano che l'espansione delle cellule staminali in provetta e in vivo, due obiettivi centrali nella medicina rigenerativa, può essere raggiunta attraverso l'attivazione di Notch", ha dichiarato McKay. Ipoteticamente un giorno potrebbe essere possibile somministrare farmaci di "primo soccorso" dopo un ictus o un infarto per indurre processi autoriparativi ed evitare i danni che seguono a questi incidenti vascolari.
Fonte: Ansa
13 giugno 2006
Il telefonino più comodo? Quello di carta
Presentato il concept di un telefonino dall'involucro in Tetra Pak. Economico e riciclabile
Roma - Altro che origami! Con la carta oggi si può anche telefonare. Lo dimostra "Paper Says", il prototipo presentato da Yanko Design, un autentico telefono cellulare con guscio in carta, che ricorda le confezioni di Tetra Pak utilizzate per latte, vino e succhi di frutta.
Non fa vedere la televisione e non è nemmeno un apparecchio 3G, ma potrebbe avere comunque un certo successo per via delle sue caratteristiche. Secondo i suoi sviluppatori, si tratta di un apparecchio riciclabile: preso a nolo per un periodo limitato può essere restituito e riciclato, grazie all'applicazione di un nuovo guscio, sempre in carta. Che si presta a molte personalizzazioni, sia da parte degli utenti che da parte delle aziende che lo potrebbero vedere come una trovata pubblicitaria.
Pensato per coloro che viaggiano sovente all'estero, come soluzione alternativa all'acquisto delle schede telefoniche locali, secondo Yanko design Paper Says è anche un telefono economico: "Il suo prezzo è contenuto e può essere comprato ovunque. Non importa se è sporco o viene smarrito. Può essere acquistato in qualunque organizzazione privata o pubblica, come aeroporti e musei".
Non è stato reso noto alcun dettaglio sulla possibile commercializzazione di Paper Says, che per la sua originalità rappresenta comunque un concept che potrebbe essere gradito ad aziende intenzionate ad entrare nei mercati emergenti. Ma rimangono alcune perplessità legate al fattore economico: a fronte di un pur bassissimo costo dell'involucro, come può questo telefonino costare davvero poco se mantiene batterie, display LCD ed elettronica tradizionali?
Fonte: Punto informatico
Roma - Altro che origami! Con la carta oggi si può anche telefonare. Lo dimostra "Paper Says", il prototipo presentato da Yanko Design, un autentico telefono cellulare con guscio in carta, che ricorda le confezioni di Tetra Pak utilizzate per latte, vino e succhi di frutta.
Non fa vedere la televisione e non è nemmeno un apparecchio 3G, ma potrebbe avere comunque un certo successo per via delle sue caratteristiche. Secondo i suoi sviluppatori, si tratta di un apparecchio riciclabile: preso a nolo per un periodo limitato può essere restituito e riciclato, grazie all'applicazione di un nuovo guscio, sempre in carta. Che si presta a molte personalizzazioni, sia da parte degli utenti che da parte delle aziende che lo potrebbero vedere come una trovata pubblicitaria.
Pensato per coloro che viaggiano sovente all'estero, come soluzione alternativa all'acquisto delle schede telefoniche locali, secondo Yanko design Paper Says è anche un telefono economico: "Il suo prezzo è contenuto e può essere comprato ovunque. Non importa se è sporco o viene smarrito. Può essere acquistato in qualunque organizzazione privata o pubblica, come aeroporti e musei".
Non è stato reso noto alcun dettaglio sulla possibile commercializzazione di Paper Says, che per la sua originalità rappresenta comunque un concept che potrebbe essere gradito ad aziende intenzionate ad entrare nei mercati emergenti. Ma rimangono alcune perplessità legate al fattore economico: a fronte di un pur bassissimo costo dell'involucro, come può questo telefonino costare davvero poco se mantiene batterie, display LCD ed elettronica tradizionali?
Fonte: Punto informatico
10 giugno 2006
Giappone, un robot per commesso
Una catena di grandi magazzini ha iniziato la sperimentazione di un robot in grado di...servire come commesso. L'automa, creato dal colosso dell'elettronica Fujitsu, si chiama 'Enon'
Tokyo, 10 giugno 2006 - In Giappone, una catena di grandi magazzini ha iniziato la sperimentazione di un robot in grado di...servire come commesso. L'automa, creato dal colosso dell'elettronica Fujitsu, si chiama 'Enon'. E' alto 130 centimetri, pesa circa 50 kg e si muove autonomamente per mezzo di 4 piccole ruote. La combinazione ricorda un mix tra i due celeberrimi androidi 'C-3PO' e 'R2-D2'del film 'Guerre Stellari': non ha gambe gambe, ha braccia meccaniche che possono sollevare e spostare oggetti (massimo 0,5 kg), una testa che incorpora 6 videocamere e 6 sensori di spostamento, grazie ai quali 'enon' e' in grado di avvertire la presenza di ostacoli da evitare o esseri umani coi quali interagire.
Secondo il produttore, il cyber impiegato e' il primo esemplare di automa in grado di svolgere molteplici attivita'.
'Enon' sa fare un po' di tutto: accoglie i clienti alla reception e li 'scorta' a destinazione, trasporta oggetti e si cimenta anche in attivita' di sorveglianza non stop, con la possibIlita' di inviare istantanee fotografiche in tempo reale al 'padrone'.
E non finisce qui. Il robot in pratica e' in grado di parlare (per adesso solo in giapponese) con l'interlocutore e ascoltare cio' che gli viene detto o ordinato di fare. L'automa e' inoltre dotato di uno schermo LCD incastonato nel torace, attraverso il quale e' possibile eseguire ricerche e ottenere informazioni su prodotti e servizi di vario genere.
L'esperimento, che si tiene in un piccolo centro nell'isola di Kyushu, durerà un mese, durante i fine settimana. L'obiettivo e' verificare sul campo il comportamento della macchina prima di un suo utilizzo nelle grandi citta'.
Per ora il robot lavoratore sara' impiegato alla reception di un centro commerciale per accogliere i clienti.
Fonte: Il resto del Carlino
Tokyo, 10 giugno 2006 - In Giappone, una catena di grandi magazzini ha iniziato la sperimentazione di un robot in grado di...servire come commesso. L'automa, creato dal colosso dell'elettronica Fujitsu, si chiama 'Enon'. E' alto 130 centimetri, pesa circa 50 kg e si muove autonomamente per mezzo di 4 piccole ruote. La combinazione ricorda un mix tra i due celeberrimi androidi 'C-3PO' e 'R2-D2'del film 'Guerre Stellari': non ha gambe gambe, ha braccia meccaniche che possono sollevare e spostare oggetti (massimo 0,5 kg), una testa che incorpora 6 videocamere e 6 sensori di spostamento, grazie ai quali 'enon' e' in grado di avvertire la presenza di ostacoli da evitare o esseri umani coi quali interagire.
Secondo il produttore, il cyber impiegato e' il primo esemplare di automa in grado di svolgere molteplici attivita'.
'Enon' sa fare un po' di tutto: accoglie i clienti alla reception e li 'scorta' a destinazione, trasporta oggetti e si cimenta anche in attivita' di sorveglianza non stop, con la possibIlita' di inviare istantanee fotografiche in tempo reale al 'padrone'.
E non finisce qui. Il robot in pratica e' in grado di parlare (per adesso solo in giapponese) con l'interlocutore e ascoltare cio' che gli viene detto o ordinato di fare. L'automa e' inoltre dotato di uno schermo LCD incastonato nel torace, attraverso il quale e' possibile eseguire ricerche e ottenere informazioni su prodotti e servizi di vario genere.
L'esperimento, che si tiene in un piccolo centro nell'isola di Kyushu, durerà un mese, durante i fine settimana. L'obiettivo e' verificare sul campo il comportamento della macchina prima di un suo utilizzo nelle grandi citta'.
Per ora il robot lavoratore sara' impiegato alla reception di un centro commerciale per accogliere i clienti.
Fonte: Il resto del Carlino
09 giugno 2006
Per combattere l'osteoporosi si cambi forma a quella proteina
Ricercatori Usa hanno individuato il sistema utilizzando la NFATc1, che regola la crescita della massa ossea
ROMA - Combattere l'osteoporosi? Basta cambiare la forma di una proteina. I ricercatori dell'Howard Hughes Medical Institute del Maryland hanno dimostrato che la proteina NFATc1 può essere utilizzata per incrementare o ridurre la massa ossea, e quindi intervenire sull'osteoporosi, solo modificandone la struttura geometrica. Lo studio è stato pubblicato oggi sulla rivista Developmental Cell.
Tutto è partito da un effetto collaterale della ciclosporina, un medicinale utilizzato nelle terapie antirigetto dopo i trapianti. Dato che nei pazienti si riscontrava un calo della massa corporea, la curiosità dei ricercatori si è rivolta agli effetti del medicinale, che cambiano la struttura della proteina NFATc1.
La proteina, modificata dalla ciclosporina, non riesce a interagire con il nucleo della cellula e impedisce l'attivazione di alcuni geni. Invece gli esperimenti in laboratorio condotti sui gatti hanno messo in luce che, modificando la struttura della NFATc1 in modo da farla interagire meglio con il nucleo, si ha un forte incremento nell'attività degli osteoblasti - le cellule che si occupano della costruzione delle ossa - e un aumento della massa ossea.
"E' sufficiente - ha spiegato uno degli autori dello studio - attivare una piccola quantità di NFATc1 per dar vita a un forte aumento di massa ossea, che significa poter intervenire in maniera mirata senza disturbare il funzionamento di altri organi".
Le applicazioni sull'uomo sono però ancora tutte da delineare: sarà prima necessario chiarire quali agenti chimici sono più adatti per dare inizio alla produzione extra di NFATc1 senza causare indesiderabili effetti collaterali.
Fonte: Repubblica
ROMA - Combattere l'osteoporosi? Basta cambiare la forma di una proteina. I ricercatori dell'Howard Hughes Medical Institute del Maryland hanno dimostrato che la proteina NFATc1 può essere utilizzata per incrementare o ridurre la massa ossea, e quindi intervenire sull'osteoporosi, solo modificandone la struttura geometrica. Lo studio è stato pubblicato oggi sulla rivista Developmental Cell.
Tutto è partito da un effetto collaterale della ciclosporina, un medicinale utilizzato nelle terapie antirigetto dopo i trapianti. Dato che nei pazienti si riscontrava un calo della massa corporea, la curiosità dei ricercatori si è rivolta agli effetti del medicinale, che cambiano la struttura della proteina NFATc1.
La proteina, modificata dalla ciclosporina, non riesce a interagire con il nucleo della cellula e impedisce l'attivazione di alcuni geni. Invece gli esperimenti in laboratorio condotti sui gatti hanno messo in luce che, modificando la struttura della NFATc1 in modo da farla interagire meglio con il nucleo, si ha un forte incremento nell'attività degli osteoblasti - le cellule che si occupano della costruzione delle ossa - e un aumento della massa ossea.
"E' sufficiente - ha spiegato uno degli autori dello studio - attivare una piccola quantità di NFATc1 per dar vita a un forte aumento di massa ossea, che significa poter intervenire in maniera mirata senza disturbare il funzionamento di altri organi".
Le applicazioni sull'uomo sono però ancora tutte da delineare: sarà prima necessario chiarire quali agenti chimici sono più adatti per dare inizio alla produzione extra di NFATc1 senza causare indesiderabili effetti collaterali.
Fonte: Repubblica
Genetica: individuato il gene del piacere
Gli esperti dell'università di Gerusalemme hanno analizzato il dna di un gruppo di volontari trovando due versioni distinte del gene denominato "DRD4". La diversa conformazione determinerebbe l'intensità del desiderio
Roma, 30 maggio 2006 - Si chiama "DRD4" il gene recentemente scoperto al quale legare i nostri istinti e la nostra carica sessuale. Alcuni ricercatori di Gerusalemme hanno analizzato il dna di quasi 200 studenti individuando due distinte forme del gene. La diversa conformazione determinerebbe dunque la diversa passionalità ed intensità dei rapporti sessuali.
I risultati dell'esperimento hanno dimostrato che tra le due forme recettive la meno diffusa è quella "dell'ardente desiderio", riscontrata solo nel 30 per cento dei soggetti analizzati. La restante parte non riceve i giusti impulsi genetici e l'effetto prodotto è un fievole stimolo passionale.
Gli psichiatri e i genetisti impiegati nella ricerca hanno inoltre stabilito che l'ultima modifica genetica può farsi risalire a circa 50mila anni fa lasciando intendere che, anche se in diminuzione, il tempo non affievolisce il desiderio dei pochi "eletti".
Il "DRD4" produce un recettore delle cellule nervose che, attraverso dei specifici impulsi chimici riesce ad attivare stimoli diversi e di intensità diseguale. I ricercatori hanno così voluto dimostrare come il sesso sia legato ai fattori genetici e di come i problemi sessuali possano anche essere curati attraverso il campo della farmacologia.
Fonte: Romaone
Roma, 30 maggio 2006 - Si chiama "DRD4" il gene recentemente scoperto al quale legare i nostri istinti e la nostra carica sessuale. Alcuni ricercatori di Gerusalemme hanno analizzato il dna di quasi 200 studenti individuando due distinte forme del gene. La diversa conformazione determinerebbe dunque la diversa passionalità ed intensità dei rapporti sessuali.
I risultati dell'esperimento hanno dimostrato che tra le due forme recettive la meno diffusa è quella "dell'ardente desiderio", riscontrata solo nel 30 per cento dei soggetti analizzati. La restante parte non riceve i giusti impulsi genetici e l'effetto prodotto è un fievole stimolo passionale.
Gli psichiatri e i genetisti impiegati nella ricerca hanno inoltre stabilito che l'ultima modifica genetica può farsi risalire a circa 50mila anni fa lasciando intendere che, anche se in diminuzione, il tempo non affievolisce il desiderio dei pochi "eletti".
Il "DRD4" produce un recettore delle cellule nervose che, attraverso dei specifici impulsi chimici riesce ad attivare stimoli diversi e di intensità diseguale. I ricercatori hanno così voluto dimostrare come il sesso sia legato ai fattori genetici e di come i problemi sessuali possano anche essere curati attraverso il campo della farmacologia.
Fonte: Romaone
Quel robot ha le mani come quelle di un uomo
Una pelle speciale le rende sensibili. Conoscendo la forma dell'oggetto da toccare, il computer guiderà l'umanoide
ROMA - I robot saranno capaci di dare carezze. Alla stretta della loro mano meccanica si sostituirà un tocco gentile, grazie a una "pelle" inventata da due ingegneri dell'università del Nebraska. "Attraverso una pellicola dalle proprietà elettriche particolari, possiamo costruire robot con una sensibilità simile a quella delle mani umane" spiegano Vivek Maheshwari e Ravi Saraf sul numero odierno di Science. E non a dare carezze serviranno i robot dal tocco gentile, bensì ad aiutare i chirurghi in sala operatoria, sviluppando quel campo nuovo della medicina che prende il nome di "chirurgia robotizzata".
L'utilizzo di bracci meccanici per gli interventi più semplici avviene già da qualche anno. Ha il vantaggio di eliminare il tremolìo della mano del chirurgo e quindi ridurre le dimensioni delle incisioni e accelerare la guarigione. Ma il limite di questi apparecchi, guidati a distanza dal chirurgo-uomo attraverso una console, sta proprio nella ridotta sensibilità al tatto e nella visibilità poco nitida dell'area da operare.
Oggi i robot riescono sia pur parzialmente a interpretare un discorso, sorridere, camminare, giocare a calcio o attraversare un deserto. Ma le loro mani spesso sono l'equivalente di una pinza di ferro. "Allo stato dell'arte - lamenta in un editoriale su Science Richard Crowder dell'università di Southampton - i robot non eguagliano nemmeno le capacità di un bambino di sei anni. Non riuscirebbero neppure ad allacciarsi le scarpe o a costruire un castello di carte".
La "pelle" realizzata da Maheshwari e Saraf ha proprietà elettriche tali da illuminarsi quando su di essa si esercita una pressione. Tanto maggiore è la forza esercitata, tanto più intensa è la luminescenza. Una sottile telecamera applicata sul retro della pellicola raccoglie e misura l'intensità della luce, traducendola in una mappa nitida dell'oggetto.
Conoscendo la forma e la struttura della superficie da afferrare, il computer incorporato nel robot è in grado di guidare i movimenti della mano. Evitando sia di far scivolare l'oggetto sia di danneggiarlo con una presa troppo stretta.
Oltre alle applicazioni mediche, il robot fine e sensibile potrà essere usato nelle missioni spaziali. Non è un caso che uno degli umanoidi più avanzati sia uscito dai laboratori della Nasa. "Robonaut" è stato progettato in collaborazione con il Dipartimento della difesa statunitense per effettuare missioni rischiose a spasso nel cosmo. Ha 150 sensori su ogni mano e tutti i dati vengono inviati a un computer che funge da sistema nervoso centrale. Ora "Robonaut" potrà diventare abile non solo nell'allacciare scarpe, ma anche nel riparare l'esterno della navicella, usando un cacciavite mentre è sospeso nel vuoto dello spazio.
Fonte: Repubblica
ROMA - I robot saranno capaci di dare carezze. Alla stretta della loro mano meccanica si sostituirà un tocco gentile, grazie a una "pelle" inventata da due ingegneri dell'università del Nebraska. "Attraverso una pellicola dalle proprietà elettriche particolari, possiamo costruire robot con una sensibilità simile a quella delle mani umane" spiegano Vivek Maheshwari e Ravi Saraf sul numero odierno di Science. E non a dare carezze serviranno i robot dal tocco gentile, bensì ad aiutare i chirurghi in sala operatoria, sviluppando quel campo nuovo della medicina che prende il nome di "chirurgia robotizzata".
L'utilizzo di bracci meccanici per gli interventi più semplici avviene già da qualche anno. Ha il vantaggio di eliminare il tremolìo della mano del chirurgo e quindi ridurre le dimensioni delle incisioni e accelerare la guarigione. Ma il limite di questi apparecchi, guidati a distanza dal chirurgo-uomo attraverso una console, sta proprio nella ridotta sensibilità al tatto e nella visibilità poco nitida dell'area da operare.
Oggi i robot riescono sia pur parzialmente a interpretare un discorso, sorridere, camminare, giocare a calcio o attraversare un deserto. Ma le loro mani spesso sono l'equivalente di una pinza di ferro. "Allo stato dell'arte - lamenta in un editoriale su Science Richard Crowder dell'università di Southampton - i robot non eguagliano nemmeno le capacità di un bambino di sei anni. Non riuscirebbero neppure ad allacciarsi le scarpe o a costruire un castello di carte".
La "pelle" realizzata da Maheshwari e Saraf ha proprietà elettriche tali da illuminarsi quando su di essa si esercita una pressione. Tanto maggiore è la forza esercitata, tanto più intensa è la luminescenza. Una sottile telecamera applicata sul retro della pellicola raccoglie e misura l'intensità della luce, traducendola in una mappa nitida dell'oggetto.
Conoscendo la forma e la struttura della superficie da afferrare, il computer incorporato nel robot è in grado di guidare i movimenti della mano. Evitando sia di far scivolare l'oggetto sia di danneggiarlo con una presa troppo stretta.
Oltre alle applicazioni mediche, il robot fine e sensibile potrà essere usato nelle missioni spaziali. Non è un caso che uno degli umanoidi più avanzati sia uscito dai laboratori della Nasa. "Robonaut" è stato progettato in collaborazione con il Dipartimento della difesa statunitense per effettuare missioni rischiose a spasso nel cosmo. Ha 150 sensori su ogni mano e tutti i dati vengono inviati a un computer che funge da sistema nervoso centrale. Ora "Robonaut" potrà diventare abile non solo nell'allacciare scarpe, ma anche nel riparare l'esterno della navicella, usando un cacciavite mentre è sospeso nel vuoto dello spazio.
Fonte: Repubblica
07 giugno 2006
Nasce la mosca insonne, oscurata l'area nervosa
ROMA - Creata una mosca 'senza sonno'. Il neonato moscerino della frutta (Drosophila melanogaster) potrebbe aiutare a svelare i meccanismi di regolazione del sonno nell'uomo, è riferito sulla rivista Nature in due articoli entrambi dedicati all'insettino che 'non dorme'.
Si tratta di un moscerino cui è stata chimicamente distrutta una parte del cervello, i 'corpi fungiformi', già noti per il loro coinvolgimento in memoria e apprendimento. Il moscerino così trattato, hanno spiegato esperti della Northwestern University in Illinois, dorme molto meno delle moschette selvatiche.
Ciò conferma, come già visto in altri studi su animali e uomo, che il sonno è intimamente legato a memoria e apprendimento in molti animali, probabilmente grazie a un meccanismo di regolazione che si è conservato sulla scala evolutiva, da animali come gli insetti fino a noi. Non a caso alcuni studi anche sull'uomo avevano già dimostrato che durante il sonno nel cervello si riorganizzano le informazioni raccolte di giorno.
Proprio perché quelli che regolano il sonno sembrano essere meccanismi molto conservati sulla scala evolutiva, studiare la regolazione del sonno sui moscerini della frutta ha un grosso valore per capire come è regolata questa parte tanto misteriosa quanto cruciale dell'esistenza umana.
Tanto più perché la Drosophila e l'uomo hanno un sonno con caratteristiche molto simili, per esempio sia l'insettino sia noi al risveglio siamo un po' intontiti, inoltre se lesiniamo ore di sonno al corpo lui inevitabilmente ce le chiede indietro per recuperare. Così gli esperti, diretti da Ravi Allada, hanno eseguito una serie di esperimenti sul cervello della Drosophila. I ricercatori hanno messo 'KO' parti del cervello tra cui i corpi fungiformi.
Questi sono un paio di strutture simmetriche e bilaterali in profondità nel cervello degli insetti e sono responsabili dell'integrazione delle informazioni sensorie e di vitale importanza per la formazione della memoria. Usando composti chimici gli scienziati hanno distrutto il funzionamento dei corpi fungiformi scoprendo che ciò crea moscerini che dormono poco.
Quindi, gli esperti hanno scoperto che i corpi fungiformi hanno un ruolo chiave anche nella regolazione del sonno. Una volta chiariti i meccanismi molecolari con cui i corpi fungiformi operano il controllo sul sonno e, quindi, in che modo sonno, apprendimento e memoria sono tra loro collegati, si getteranno le basi per la completa comprensione dei meccanismi corrispondenti nel cervello umano.
Fonte: Ansa
Si tratta di un moscerino cui è stata chimicamente distrutta una parte del cervello, i 'corpi fungiformi', già noti per il loro coinvolgimento in memoria e apprendimento. Il moscerino così trattato, hanno spiegato esperti della Northwestern University in Illinois, dorme molto meno delle moschette selvatiche.
Ciò conferma, come già visto in altri studi su animali e uomo, che il sonno è intimamente legato a memoria e apprendimento in molti animali, probabilmente grazie a un meccanismo di regolazione che si è conservato sulla scala evolutiva, da animali come gli insetti fino a noi. Non a caso alcuni studi anche sull'uomo avevano già dimostrato che durante il sonno nel cervello si riorganizzano le informazioni raccolte di giorno.
Proprio perché quelli che regolano il sonno sembrano essere meccanismi molto conservati sulla scala evolutiva, studiare la regolazione del sonno sui moscerini della frutta ha un grosso valore per capire come è regolata questa parte tanto misteriosa quanto cruciale dell'esistenza umana.
Tanto più perché la Drosophila e l'uomo hanno un sonno con caratteristiche molto simili, per esempio sia l'insettino sia noi al risveglio siamo un po' intontiti, inoltre se lesiniamo ore di sonno al corpo lui inevitabilmente ce le chiede indietro per recuperare. Così gli esperti, diretti da Ravi Allada, hanno eseguito una serie di esperimenti sul cervello della Drosophila. I ricercatori hanno messo 'KO' parti del cervello tra cui i corpi fungiformi.
Questi sono un paio di strutture simmetriche e bilaterali in profondità nel cervello degli insetti e sono responsabili dell'integrazione delle informazioni sensorie e di vitale importanza per la formazione della memoria. Usando composti chimici gli scienziati hanno distrutto il funzionamento dei corpi fungiformi scoprendo che ciò crea moscerini che dormono poco.
Quindi, gli esperti hanno scoperto che i corpi fungiformi hanno un ruolo chiave anche nella regolazione del sonno. Una volta chiariti i meccanismi molecolari con cui i corpi fungiformi operano il controllo sul sonno e, quindi, in che modo sonno, apprendimento e memoria sono tra loro collegati, si getteranno le basi per la completa comprensione dei meccanismi corrispondenti nel cervello umano.
Fonte: Ansa
06 giugno 2006
Una colla biologica lega le cellule leucemiche
ROMA - Identificata la "colla" che lega le cellule staminali della leucemia mieloide acuta al loro nido protettivo, permettendo loro di riprodurre continuamente il tumore e trovato un "solvente" per scollare queste cellule. L' annuncio è stato dato al V convegno nazionale "Cellule staminali e progenitori emopoietici circolanti" da Jean Weng, del dipartimento di Genetica medica e molecolare dell' università di Toronto.
La ricercatrice, che nel 2004 aveva identificato le staminali alla radice delle leucemie mieloidi acute, ha dimostrato l' efficacia di un anticorpo H90 di agire come "solvente" di questa colla, che è la molecola di adesione CD44, posta sulla superficie delle staminali tumorali. E' grazie a questa molecola, infatti, che le staminali che alimentano il tumore rimangono protette nella loro nicchia all' interno del midollo osseo.
"E' la prima volta - ha commentato l'ematologo dell'ospedale S.Camillo Ignazio Majolino, che ha organizzato e presiede il convegno - che siamo in grado di vedere la possibilità di agire anche sulle cellule staminali della leucemia, cioé su quelle cellule che determinano la ricaduta anche nei pazienti che hanno avuto i migliori risultati dalla chemioterapia.
La leucemia mieloide acuta è un tumore del sangue, spesso purtroppo anche dopo cicli di chemioterapia efficaci nel rimuovere il tumore, il male ritorna ovvero si hanno delle ricadute. E' recente la scoperta che ciò è dovuto a cellule staminali tumorali che riproducono in modo continuo il tumore.
Queste cellule si nascondono dentro il midollo osseo protette da nicchie costituite da altre cellule, le cosiddette cellule nutrici, il cui compito è di proteggere dall' ambiente esterno le staminali. Solo dentro questi nidi le cellule staminali sono in grado di sopravvivere e alimentare continuamente il tumore.
La Weng ha scoperto che la molecola CD44 è il collante che permette alle staminali di rimanere ancorate alla nicchia. Con questa premessa, la ricercatrice ha trapiantato il tumore umano in topolini ed ha iniettato agli animali l' anticorpo H90 che lega in modo specifico la molecola CD44. Il legame dell' anticorpo alla molecola di adesione taglia gli ormeggi delle staminali tumorali e potrebbe dunque essere un modo per "stanarle" dalla loro nicchia protettiva per impedire la ricaduta del tumore.
"Speriamo - ha concluso Majolino - che anche nell' uomo sia valido questo meccanismo, per arrivare rapidamente alla produzione di farmaci contro questi tumori".
Fonte: Ansa
La ricercatrice, che nel 2004 aveva identificato le staminali alla radice delle leucemie mieloidi acute, ha dimostrato l' efficacia di un anticorpo H90 di agire come "solvente" di questa colla, che è la molecola di adesione CD44, posta sulla superficie delle staminali tumorali. E' grazie a questa molecola, infatti, che le staminali che alimentano il tumore rimangono protette nella loro nicchia all' interno del midollo osseo.
"E' la prima volta - ha commentato l'ematologo dell'ospedale S.Camillo Ignazio Majolino, che ha organizzato e presiede il convegno - che siamo in grado di vedere la possibilità di agire anche sulle cellule staminali della leucemia, cioé su quelle cellule che determinano la ricaduta anche nei pazienti che hanno avuto i migliori risultati dalla chemioterapia.
La leucemia mieloide acuta è un tumore del sangue, spesso purtroppo anche dopo cicli di chemioterapia efficaci nel rimuovere il tumore, il male ritorna ovvero si hanno delle ricadute. E' recente la scoperta che ciò è dovuto a cellule staminali tumorali che riproducono in modo continuo il tumore.
Queste cellule si nascondono dentro il midollo osseo protette da nicchie costituite da altre cellule, le cosiddette cellule nutrici, il cui compito è di proteggere dall' ambiente esterno le staminali. Solo dentro questi nidi le cellule staminali sono in grado di sopravvivere e alimentare continuamente il tumore.
La Weng ha scoperto che la molecola CD44 è il collante che permette alle staminali di rimanere ancorate alla nicchia. Con questa premessa, la ricercatrice ha trapiantato il tumore umano in topolini ed ha iniettato agli animali l' anticorpo H90 che lega in modo specifico la molecola CD44. Il legame dell' anticorpo alla molecola di adesione taglia gli ormeggi delle staminali tumorali e potrebbe dunque essere un modo per "stanarle" dalla loro nicchia protettiva per impedire la ricaduta del tumore.
"Speriamo - ha concluso Majolino - che anche nell' uomo sia valido questo meccanismo, per arrivare rapidamente alla produzione di farmaci contro questi tumori".
Fonte: Ansa
05 giugno 2006
Clonazione, il 'padre' di Dolly lancia la selezione genetica
"L'embrione al primo stadio non è una persona". Ma i movimenti per la vita insorgono: "Idea perversa". "Si possono far nascere bambini privi di malattie ereditarie"
LONDRA - Clonazione embrionale e modifiche genetiche dovrebbero essere consentite per far nascere bambini senza far loro ereditare le malattie dei genitori. Lo ha affermato il professore Ian Wilmut, lo scienziato a capo del team che nel 1996 creò la pecora Dolly, il primo animale clonato al mondo.
Wilmut si schiera così a favore di una clonazione 'selettiva': i difetti genetici sarebbero corretti su cellule staminali, prelevate da embrioni affetti da malattie ereditarie, e poi clonate per creare un embrione sano. Il procedimento, continua Wilmut, "potrebbe curare malattie come la Corea di Huntington o la fibrosi cistica".
Secondo lo studioso - che continua ad essere contrario alla clonazione di esseri umani - questo procedimento, con il quale viene creato in vitro un embrione contenente circa 100 cellule, non è equivalente alla clonazione umana. "Un embrione al primo stadio non è una persona e credo perciò che utilizzare la clonazione per prevenire una terribile malattia ereditaria in un bambino sia una cosa molto meno controversa. Non riesco semplicemente a vedere nulla di immorale nell'uso di queste tecniche per prevenire malattie e sofferenze".
Con questa presa di posizione, Wilmut - che l'ha espressa nel libro "After Dolly", pubblicato a puntate sul quotidiano britannico Daily Telegraph - ha suscitato le critiche delle associazioni per il diritto alla vita, che hanno definito "perverse" le intenzioni dello scienziato.
Fonte: Repubblica
LONDRA - Clonazione embrionale e modifiche genetiche dovrebbero essere consentite per far nascere bambini senza far loro ereditare le malattie dei genitori. Lo ha affermato il professore Ian Wilmut, lo scienziato a capo del team che nel 1996 creò la pecora Dolly, il primo animale clonato al mondo.
Wilmut si schiera così a favore di una clonazione 'selettiva': i difetti genetici sarebbero corretti su cellule staminali, prelevate da embrioni affetti da malattie ereditarie, e poi clonate per creare un embrione sano. Il procedimento, continua Wilmut, "potrebbe curare malattie come la Corea di Huntington o la fibrosi cistica".
Secondo lo studioso - che continua ad essere contrario alla clonazione di esseri umani - questo procedimento, con il quale viene creato in vitro un embrione contenente circa 100 cellule, non è equivalente alla clonazione umana. "Un embrione al primo stadio non è una persona e credo perciò che utilizzare la clonazione per prevenire una terribile malattia ereditaria in un bambino sia una cosa molto meno controversa. Non riesco semplicemente a vedere nulla di immorale nell'uso di queste tecniche per prevenire malattie e sofferenze".
Con questa presa di posizione, Wilmut - che l'ha espressa nel libro "After Dolly", pubblicato a puntate sul quotidiano britannico Daily Telegraph - ha suscitato le critiche delle associazioni per il diritto alla vita, che hanno definito "perverse" le intenzioni dello scienziato.
Fonte: Repubblica
04 giugno 2006
Tumore, il vaccino che «uccide» le staminali malate
La ricerca è stata presentata un gruppo di ricercatori argentini al congresso annuale degli oncologi americani in corso ad Atlanta
ATLANTA - Un vaccino anti-staminali per colpire il tumore al polmone: la strategia, nuovissima, è stata appena presentata da un gruppo di ricercatori argentini all’Asco, il congresso annuale degli oncologi clinici americani in corso ad Atlanta. Sei pazienti con un tumore al polmone (del tipo cosiddetto «non a piccole cellule», che rappresenta l’80 per cento di tutti i tumori polmonari) in fase avanzata sono stati trattati con un vaccino costituito da cellule staminali prelevate dal tumore stesso: pochi gli effetti collaterali (limitati a infiammazione nel punto dell’iniezione) e una durata di vita che per alcuni ha superato i tre anni. A condurre l’esperimento un gruppo di ricercatori argentini dell’Ospedale Regina Mater di Buenos Aires, che hanno utilizzato la stessa terapia per curare anche otto pazienti con tumori cerebrali, glioblastomi in particolare. Questi ultimi avevano già subìto un intervento chirurgico e una radioterapia, ma la malattia si era ripresentata. Ora sono a 22 mesi dal trattamento.
L'IPOTESI - Da qualche tempo i ricercatori si sono convinti, e lo hanno dimostrato, che i tumori si diffondono, recidivano e diventano insensibili ai farmaci perché sono «alimentati» da cellule staminali tumorali. Per dirla diversamente: è una cellula staminale impazzita che dà origine al tumore e ne garantisce la sopravvivenza. Qualche tempo fa un gruppo di ricercatori americani di Ann Arbor hanno dimostrato che su cento cellule tumorali, 99 morirebbero comunque «di morte naturale», mentre una è in grado di moltiplicarsi e di rigenerare la massa tumorale all’infinito, spesso incurante delle terapie. È questa che va colpita se si vuole distruggere definitivamente la malattia. Cellule staminali tumorali sono già state identificate nei tumori del cervello, della mammella, della prostata, del polmone e nel melanoma.
UN «IBRIDO» E I FARMACI - Per costruire il vaccino i ricercatori hanno isolato le cellule staminali dal tumore e le hanno «fuse» con cellule B dei pazienti stessi (si tratta di cellule del sistema immunitario che normalmente producono anticorpi) e hanno poi iniettato questo «ibrido» nei linfonodi dei malati. Per ora si è dimostrata la sua sicurezza e una certa efficacia, ma il numero di malati è ancora molto limitato e i risultati dovranno essere confermati da altri studi con un numero superiore di pazienti. Intanto la terapia del tumore al polmone può contare farmaci chemioterapici, già disponibili come il classico cisplaatino e il più nuovo docetaxel. Altre molecole, che agiscono su proteine della cellula neoplastica, sono ancora in fase di sperimentazione: l’erlotinib e il borzetomib hanno dimostrato di aumentare le aspettative di vita nei tumori in fase avanzata. Lo stesso vale per il sunitinib, l’ultimo nato in questa famiglia di farmaci, che è stato presentato ad Atlanta: somministrato una volta al giorno sotto forma di pillola, si è rivelato capace di impedire la progressione della malattia in pazienti con tumore polmonare avanzato.
Fonte: Corriere della Sera
ATLANTA - Un vaccino anti-staminali per colpire il tumore al polmone: la strategia, nuovissima, è stata appena presentata da un gruppo di ricercatori argentini all’Asco, il congresso annuale degli oncologi clinici americani in corso ad Atlanta. Sei pazienti con un tumore al polmone (del tipo cosiddetto «non a piccole cellule», che rappresenta l’80 per cento di tutti i tumori polmonari) in fase avanzata sono stati trattati con un vaccino costituito da cellule staminali prelevate dal tumore stesso: pochi gli effetti collaterali (limitati a infiammazione nel punto dell’iniezione) e una durata di vita che per alcuni ha superato i tre anni. A condurre l’esperimento un gruppo di ricercatori argentini dell’Ospedale Regina Mater di Buenos Aires, che hanno utilizzato la stessa terapia per curare anche otto pazienti con tumori cerebrali, glioblastomi in particolare. Questi ultimi avevano già subìto un intervento chirurgico e una radioterapia, ma la malattia si era ripresentata. Ora sono a 22 mesi dal trattamento.
L'IPOTESI - Da qualche tempo i ricercatori si sono convinti, e lo hanno dimostrato, che i tumori si diffondono, recidivano e diventano insensibili ai farmaci perché sono «alimentati» da cellule staminali tumorali. Per dirla diversamente: è una cellula staminale impazzita che dà origine al tumore e ne garantisce la sopravvivenza. Qualche tempo fa un gruppo di ricercatori americani di Ann Arbor hanno dimostrato che su cento cellule tumorali, 99 morirebbero comunque «di morte naturale», mentre una è in grado di moltiplicarsi e di rigenerare la massa tumorale all’infinito, spesso incurante delle terapie. È questa che va colpita se si vuole distruggere definitivamente la malattia. Cellule staminali tumorali sono già state identificate nei tumori del cervello, della mammella, della prostata, del polmone e nel melanoma.
UN «IBRIDO» E I FARMACI - Per costruire il vaccino i ricercatori hanno isolato le cellule staminali dal tumore e le hanno «fuse» con cellule B dei pazienti stessi (si tratta di cellule del sistema immunitario che normalmente producono anticorpi) e hanno poi iniettato questo «ibrido» nei linfonodi dei malati. Per ora si è dimostrata la sua sicurezza e una certa efficacia, ma il numero di malati è ancora molto limitato e i risultati dovranno essere confermati da altri studi con un numero superiore di pazienti. Intanto la terapia del tumore al polmone può contare farmaci chemioterapici, già disponibili come il classico cisplaatino e il più nuovo docetaxel. Altre molecole, che agiscono su proteine della cellula neoplastica, sono ancora in fase di sperimentazione: l’erlotinib e il borzetomib hanno dimostrato di aumentare le aspettative di vita nei tumori in fase avanzata. Lo stesso vale per il sunitinib, l’ultimo nato in questa famiglia di farmaci, che è stato presentato ad Atlanta: somministrato una volta al giorno sotto forma di pillola, si è rivelato capace di impedire la progressione della malattia in pazienti con tumore polmonare avanzato.
Fonte: Corriere della Sera
Il robot comandato col pensiero
Presto potrebbe diventare realtà il sogno di tanti scienziati e registi che hanno più volte fantasticato sulla possibilità di comandare macchine e umanoidi con la sola forza del pensiero. Si tratta di una rivoluzionaria tecnologia che è stata presentata a Tokyo dai laboratori di ricerca Honda e Atr. Il nuovo congegno riuscirebbe a trasformare in tempo reale gli stimoli cerebrali nelle azioni meccaniche di un robot.
Questa tecnologia, denominata Bmi (Brain Machine Interface), dimostra come, con il nuovo sistema di codifica neurale Mri, sarà possibile mimare artificialmente i movimenti della mano mediante la mappatura delle reazioni emodinamiche del cervello.
Il progetto rappresenta un notevole passo avanti nella ricerca scientifica. Infatti, fino a ieri, per ottenere risultati simili, era necessario l'impianto chirurgico dei trasmettitori neurali all'interno del cervello, nonché un addestramento specifico per generare un'attività cerebrale decifrabile dalla macchina. Allo stato attuale l'apparecchiatura ha dimensioni molto ingombranti,
ma nel giro di qualche anno il dispositivo potrà assumere la forma di un cappello che potrà essere indossato in movimento e senza alcuna restrizione.
Ovviamente le applicazioni di questa nuovissima tecnologia potrebbero essere le più svariate, per esempio spingere una sedia a rotelle solo pensando di farlo, oppure realizzare dispositivi di sicurezza per le automobili che non necessitano di un intervento fisico da parte del guidatore. La Honda ha affermato che ci vorranno ancora dai 5 ai 10 anni per vedere Asimo, il suo noto umanoide che parla e cammina, muoversi ed agire attraverso istruzioni impartite mentalmente da un essere umano.
Fonte: Il Giornale
Questa tecnologia, denominata Bmi (Brain Machine Interface), dimostra come, con il nuovo sistema di codifica neurale Mri, sarà possibile mimare artificialmente i movimenti della mano mediante la mappatura delle reazioni emodinamiche del cervello.
Il progetto rappresenta un notevole passo avanti nella ricerca scientifica. Infatti, fino a ieri, per ottenere risultati simili, era necessario l'impianto chirurgico dei trasmettitori neurali all'interno del cervello, nonché un addestramento specifico per generare un'attività cerebrale decifrabile dalla macchina. Allo stato attuale l'apparecchiatura ha dimensioni molto ingombranti,
ma nel giro di qualche anno il dispositivo potrà assumere la forma di un cappello che potrà essere indossato in movimento e senza alcuna restrizione.
Ovviamente le applicazioni di questa nuovissima tecnologia potrebbero essere le più svariate, per esempio spingere una sedia a rotelle solo pensando di farlo, oppure realizzare dispositivi di sicurezza per le automobili che non necessitano di un intervento fisico da parte del guidatore. La Honda ha affermato che ci vorranno ancora dai 5 ai 10 anni per vedere Asimo, il suo noto umanoide che parla e cammina, muoversi ed agire attraverso istruzioni impartite mentalmente da un essere umano.
Fonte: Il Giornale
02 giugno 2006
Un vaccino contro la cocaina dopo i test Usa, anche in Italia
VERONA - Un vaccino per contastrare l'uso della cocaina. La novità è stata messa a punto negli Stati Uniti e presto prenderà il via l'ultima fase della sperimentazione che potrebbe coinvolgere anche l'Italia. Il progetto sarà presentato ufficialmente al "Cocaina Verona Congress", lunedì 5 e martedì 6 giugno. I primi test - se ci sarà il placet del ministero - dovrebbero partire proprio dal Veneto entro la fine dell'anno.
Come funziona. "Il vaccino - spiega Giovanni Serpelloni, direttore dell'Osservatorio regionale Veneto sulle dipendenze - è costituito da parti di cocaina inerti sintetizzate in laboratorio, che si aggregano alle molecole della cocaina impedendo che questa arrivi all'area del cervello deputata alla gratificazione. Naturalmente - tiene a sottolineare Serpelloni - alla terapia farmacologica è necessario affiancarne una psicologica".
Sei mesi di "copertura". Il vaccino, del quale sono state già testate nelle prime fasi efficacia, sicurezza e tollerabilità, elimina al 100% gli effetti chimici della cocaina e garantisce una copertura di circa sei mesi. Una scoperta di non poco conto se si prendono in esame le dimensioni del fenomeno: in Italia i consumatori della "polvere bianca" sono circa 300.000 e 17.000 sono in trattamento nelle cliniche pubbliche e private.
A chi è destinato. La tipologia del consumatore di cocaina è molto cambiata negli scorsi anni: non si tratta più di una droga d'élite, ma - visto l'abbassamento di prezzo dello stupefacente - il suo consumo si è diffuso in tutte le fasce sociali. Quindi i possibili utenti, sempre secondo Serpelloni, sono di tre tipi: chi ha smesso di farne uso ma teme ricadute; chi è in overdose, e in questo caso il vaccino servirebbe da antidoto; infine i giovani che, pur non avendone ancora fatto uso, sono considerati "a rischio".
Le tappe. Durante il convegno verrà presentato un manuale di aggiornamento tecnico-scientifico sulla cocaina (di circa 600 pagine), il primo in Italia, con il contributo di ricercatori esteri. Inoltre alla fine del congresso, mercoledì 7, sarà attivato un gruppo per lo studio di fattibilità nel nostro Paese, sul piano legale e bioetico, della sperimentazione del vaccino anticocaina. Lo scopo è quello di proporre l'Italia per la fase 3 della sperimentazione (al Nida, l'Istituto nazionale sull'abuso di droghe degli Stati Uniti, sono già state concluse le prime due fasi). Le prime somministrazioni del vaccino potranno partire soltanto dopo che sarà arrivato l'assenso ufficiale da parte del Ministero della Salute.
Fonte: Corriere della Sera
Come funziona. "Il vaccino - spiega Giovanni Serpelloni, direttore dell'Osservatorio regionale Veneto sulle dipendenze - è costituito da parti di cocaina inerti sintetizzate in laboratorio, che si aggregano alle molecole della cocaina impedendo che questa arrivi all'area del cervello deputata alla gratificazione. Naturalmente - tiene a sottolineare Serpelloni - alla terapia farmacologica è necessario affiancarne una psicologica".
Sei mesi di "copertura". Il vaccino, del quale sono state già testate nelle prime fasi efficacia, sicurezza e tollerabilità, elimina al 100% gli effetti chimici della cocaina e garantisce una copertura di circa sei mesi. Una scoperta di non poco conto se si prendono in esame le dimensioni del fenomeno: in Italia i consumatori della "polvere bianca" sono circa 300.000 e 17.000 sono in trattamento nelle cliniche pubbliche e private.
A chi è destinato. La tipologia del consumatore di cocaina è molto cambiata negli scorsi anni: non si tratta più di una droga d'élite, ma - visto l'abbassamento di prezzo dello stupefacente - il suo consumo si è diffuso in tutte le fasce sociali. Quindi i possibili utenti, sempre secondo Serpelloni, sono di tre tipi: chi ha smesso di farne uso ma teme ricadute; chi è in overdose, e in questo caso il vaccino servirebbe da antidoto; infine i giovani che, pur non avendone ancora fatto uso, sono considerati "a rischio".
Le tappe. Durante il convegno verrà presentato un manuale di aggiornamento tecnico-scientifico sulla cocaina (di circa 600 pagine), il primo in Italia, con il contributo di ricercatori esteri. Inoltre alla fine del congresso, mercoledì 7, sarà attivato un gruppo per lo studio di fattibilità nel nostro Paese, sul piano legale e bioetico, della sperimentazione del vaccino anticocaina. Lo scopo è quello di proporre l'Italia per la fase 3 della sperimentazione (al Nida, l'Istituto nazionale sull'abuso di droghe degli Stati Uniti, sono già state concluse le prime due fasi). Le prime somministrazioni del vaccino potranno partire soltanto dopo che sarà arrivato l'assenso ufficiale da parte del Ministero della Salute.
Fonte: Corriere della Sera
01 giugno 2006
Acqua alle regioni aride grazie alle nanotecnologie
Un materiale nanotecnologico in grado di "succhiare" l'umidità dall'aria potrebbe permettere un miglioramento della raccolta di acqua nelle regioni aride.
Michael Rubner e Robert Cohen del Massachusetts Institute of Technology si sono ispirati a uno scarafaggio che vive nel Deserto della Namibia, sulla costa sudoccidentale dell'Africa. Si tratta di una regione con precipitazioni scarse, difficilmente prevedibili e senza fiumi. Nelle ore mattutine, però, una nebbia piuttosto spessa sale dall'Oceano Atlantico e si adagia sulle dune desertiche. Qui lo scarafaggio raccoglie l'acqua esponendosi alla brezza che soffia dall'Oceano.
Per copiare la tecnica di raccolta dello scarafaggio, i ricercatori hanno costruito un materiale così idrofobico da far sì che l'acqua che lo colpisce si trasformi in piccole goccioline perfettamente tonde.
Il materiale è composto da un film plastico distribuito su un materiale vetroso: il film è disposto in modo da formare valli e colline di dimensioni micrometriche.
Per impedire che le goccioline di acqua vengano intrappolate dalle valli, i ricercatori ne hanno decorato la superficie con nanoparticelle di vetro a loro volta ricoperte da molecole simili al teflon, un tessuto sintetico particolarmente resistente all'acqua.
Per fare in modo che il materiale catturasse l'acqua, i ricercatori hanno creato delle protuberanze con un polimero caricato elettronicamente piene di pori. Queste protuberanze funzionano come una sorta di nanospugne che succhiano l'acqua. In un articolo pubblicato sulla rivista Nano Letters, i due esperti spiegano che queste nanospugne possono essere anche "stampate" su altri tipi di materiale e in particolare di tessuti, per renderli impermeabili.
In generale comunque i primi esperimenti dimostrano che il funzionamento di questo complesso nanotecnologico sembra essere molto più efficiente di altri tipi di strumenti per catturare l'acqua, dove spesso l'acqua finisce per scivolare via senza essere effettivamente catturata.
Fonte: Città della Scienza
Michael Rubner e Robert Cohen del Massachusetts Institute of Technology si sono ispirati a uno scarafaggio che vive nel Deserto della Namibia, sulla costa sudoccidentale dell'Africa. Si tratta di una regione con precipitazioni scarse, difficilmente prevedibili e senza fiumi. Nelle ore mattutine, però, una nebbia piuttosto spessa sale dall'Oceano Atlantico e si adagia sulle dune desertiche. Qui lo scarafaggio raccoglie l'acqua esponendosi alla brezza che soffia dall'Oceano.
Per copiare la tecnica di raccolta dello scarafaggio, i ricercatori hanno costruito un materiale così idrofobico da far sì che l'acqua che lo colpisce si trasformi in piccole goccioline perfettamente tonde.
Il materiale è composto da un film plastico distribuito su un materiale vetroso: il film è disposto in modo da formare valli e colline di dimensioni micrometriche.
Per impedire che le goccioline di acqua vengano intrappolate dalle valli, i ricercatori ne hanno decorato la superficie con nanoparticelle di vetro a loro volta ricoperte da molecole simili al teflon, un tessuto sintetico particolarmente resistente all'acqua.
Per fare in modo che il materiale catturasse l'acqua, i ricercatori hanno creato delle protuberanze con un polimero caricato elettronicamente piene di pori. Queste protuberanze funzionano come una sorta di nanospugne che succhiano l'acqua. In un articolo pubblicato sulla rivista Nano Letters, i due esperti spiegano che queste nanospugne possono essere anche "stampate" su altri tipi di materiale e in particolare di tessuti, per renderli impermeabili.
In generale comunque i primi esperimenti dimostrano che il funzionamento di questo complesso nanotecnologico sembra essere molto più efficiente di altri tipi di strumenti per catturare l'acqua, dove spesso l'acqua finisce per scivolare via senza essere effettivamente catturata.
Fonte: Città della Scienza
31 maggio 2006
USA, braccia bioniche per i mutilati di guerra
Un braccio meccanico, innervato di circuiti elettronici, in grado di sostituire la sua controparte biologica. Fantascienza? Non per gli scienziati della DARPA, l'unità scientifica dell'esercito statunitense che negli anni sessanta ha dato vita ad Internet.
Il Pentagono ha infatti lanciato un progetto di ricerca, chiamato "Revolutionizing Prosthetics", dagli obiettivi ambiziosi: creare protesi bioniche entro e non oltre il 2009, per restituire una vita normale ai mutilati di guerra delle missioni in Iraq.
Il costo dell'iniziativa è di 55 milioni di dollari, stanziati dal governo per formare un'equipe di ricercatori d'eccellenza provenienti dai migliori atenei del paese. "Questo braccio sarà differente da qualsiasi tipo di protesi artificiale mai realizzata", dice Greg Clark, uno degli ingegneri impegnati nel progetto: "I suoi movimenti saranno naturali e fluidi, in quanto verrà collegato direttamente al cervello del suo utilizzatore".
Il braccio sarà innestato direttamente sui centri nervosi del paziente, all'altezza della spalla. Gli impulsi provenienti dal cervello del paziente verranno "captati" ed interpretati da uno speciale microprocessore: la centralina elettronica azionerà vari micromotori all'interno del braccio bionico, simulando le dinamiche del sistema muscolare umano.
Equipaggiati con questo dispositivo, i pazienti potranno controllare le braccia bioniche con precisione ed affidabilità. Clark garantisce che l'uso della protesi sarà esattamente uguale a quello di un braccio "vero". Gli scienziati prevedono di realizzare anche mani e dita robotiche, così da offrire funzionalità prensili estremamente simili a quelle umane.
"Ci agganciamo a quel che rimane dei nervi e dobbiamo ingannare il cervello", spiega il Col. Geoffrey Ling della DARPA, "perché un braccio amputato è uguale ad una cornetta del telefono staccata dalla base: il telefono funziona ancora, basta ricollegare una nuova cornetta e si potrà nuovamente chiamare".
"I nostri soldati sono abituati a subire gravi ferite sul campo di battaglia", dice il Col. Ling, "ma non c'è niente di più devastante della perdita permanente di un braccio: con questo sistema, daremo finalmente sollievo a tutti quei soldati che stanno soffrendo". In futuro, secondo gli esperti, i risultati ottenuti dal progetto "Revolutionizing Prosthetics" potranno aprire un ventaglio di possibilità e nuove speranze anche per i civili.
Fonte: La Stampa
Il Pentagono ha infatti lanciato un progetto di ricerca, chiamato "Revolutionizing Prosthetics", dagli obiettivi ambiziosi: creare protesi bioniche entro e non oltre il 2009, per restituire una vita normale ai mutilati di guerra delle missioni in Iraq.
Il costo dell'iniziativa è di 55 milioni di dollari, stanziati dal governo per formare un'equipe di ricercatori d'eccellenza provenienti dai migliori atenei del paese. "Questo braccio sarà differente da qualsiasi tipo di protesi artificiale mai realizzata", dice Greg Clark, uno degli ingegneri impegnati nel progetto: "I suoi movimenti saranno naturali e fluidi, in quanto verrà collegato direttamente al cervello del suo utilizzatore".
Il braccio sarà innestato direttamente sui centri nervosi del paziente, all'altezza della spalla. Gli impulsi provenienti dal cervello del paziente verranno "captati" ed interpretati da uno speciale microprocessore: la centralina elettronica azionerà vari micromotori all'interno del braccio bionico, simulando le dinamiche del sistema muscolare umano.
Equipaggiati con questo dispositivo, i pazienti potranno controllare le braccia bioniche con precisione ed affidabilità. Clark garantisce che l'uso della protesi sarà esattamente uguale a quello di un braccio "vero". Gli scienziati prevedono di realizzare anche mani e dita robotiche, così da offrire funzionalità prensili estremamente simili a quelle umane.
"Ci agganciamo a quel che rimane dei nervi e dobbiamo ingannare il cervello", spiega il Col. Geoffrey Ling della DARPA, "perché un braccio amputato è uguale ad una cornetta del telefono staccata dalla base: il telefono funziona ancora, basta ricollegare una nuova cornetta e si potrà nuovamente chiamare".
"I nostri soldati sono abituati a subire gravi ferite sul campo di battaglia", dice il Col. Ling, "ma non c'è niente di più devastante della perdita permanente di un braccio: con questo sistema, daremo finalmente sollievo a tutti quei soldati che stanno soffrendo". In futuro, secondo gli esperti, i risultati ottenuti dal progetto "Revolutionizing Prosthetics" potranno aprire un ventaglio di possibilità e nuove speranze anche per i civili.
Fonte: La Stampa
26 maggio 2006
Ecco il mantello che rende invisibili. Una molecola "piega" i fasci luminosi
Scienziato inglese scopre un materiale che nasconde gli oggetti. La luce viene deviata lambendo l'oggetto che "scompare". Utile anche per perfezionare microscopi e fotografie. Negli anni '60 il russo Veselago aveva intravisto la scoperta
ROMA - Non è ancora il mantello che rende trasparente Harry Potter, ma ci stiamo avvicinando. L'immaginifico fisico John Pendry dell'Imperial College di Londra ha trovato la ricetta dell'invisibilità. Il suo segreto - spiega su Science - sta in un materiale capace di piegare la luce a proprio piacimento. Una superficie con proprietà elettromagnetiche tali da deviare i fasci luminosi, farsene lambire e poi costringerli a tornare nella direzione originaria: come se l'oggetto attraversato non esistesse.
Questa danza della luce, descritta in maniera convincente al tavolino, sul piano pratico è stata tradotta solo in rozzi prototipi, finanziati tra gli altri dal dipartimento della difesa Usa. Appaiono come cerchi, spirali, cilindri e minuscole sfere affiancati tra loro o immersi in materiali dalle proprietà elettromagnetiche simili all'aria.
"Credevamo di aver scoperto tutto sull'elettromagnetismo" dice Roberto Olmi dell'Istituto di fisica applicata del Cnr di Firenze. "Fino a quando non si è aperta la strada ai metamateriali: strutture che assumono proprietà fisiche sconosciute in natura, grazie a una particolare disposizione delle componenti microscopiche".
Se immergiamo un bastone nell'acqua ci appare spezzato. "Da un bastone immerso in un metamateriale si otterrebbe un'immagine opposta rispetto a quella riflessa dall'acqua. In termini tecnici diciamo che puntiamo a ottenere un indice di rifrazione negativo" spiega Olmi. Toccando i tasti giusti su questo pianoforte, è possibile rendere trasparenti tutti gli oggetti. "Per il momento - prosegue il ricercatore del Cnr - sapremmo farlo solo "cancellando" un colore alla volta. Ma sovrapponendo strati diversi del metamateriale adatto, ognuno specifico per un colore, potremmo realizzare il vero mantello invisibile".
L'oggetto si presenterà come un puzzle di strutture geometriche simili ad anelli aperti e minuscoli cilindri. Ognuno di essi sarà capace di catturare e deviare il proprio fascio di luce. Anche se, come spiega Pendry, utilizzare il mantello sarà tutt'altro che facile: "Per essere invisibili dobbiamo indossarlo, ma se lo indossiamo non possiamo guardare fuori. Senza contare la difficoltà di ritrovarlo dopo averlo tolto".
I risultati raggiunti oggi partono da lontano. "Alla fine degli anni '60 - racconta Giuseppe Molesini dell'Istituto nazionale di ottica applicata del Cnr - il fisico russo Victor Veselago aveva teorizzato tutto questo, senza avere nessuno dei mezzi di cui disponiamo oggi. I suoi studi sono stati ripresi solo trent'anni più tardi. Molte delle prove sperimentali dimostrano che aveva visto giusto". Se poi il mantello invisibile dovesse risultare del tutto inutile, i metamateriali potranno sempre servire a costruire microscopi potenti e fotografie tecnicamente perfette.
Fonte: Repubblica
ROMA - Non è ancora il mantello che rende trasparente Harry Potter, ma ci stiamo avvicinando. L'immaginifico fisico John Pendry dell'Imperial College di Londra ha trovato la ricetta dell'invisibilità. Il suo segreto - spiega su Science - sta in un materiale capace di piegare la luce a proprio piacimento. Una superficie con proprietà elettromagnetiche tali da deviare i fasci luminosi, farsene lambire e poi costringerli a tornare nella direzione originaria: come se l'oggetto attraversato non esistesse.
Questa danza della luce, descritta in maniera convincente al tavolino, sul piano pratico è stata tradotta solo in rozzi prototipi, finanziati tra gli altri dal dipartimento della difesa Usa. Appaiono come cerchi, spirali, cilindri e minuscole sfere affiancati tra loro o immersi in materiali dalle proprietà elettromagnetiche simili all'aria.
"Credevamo di aver scoperto tutto sull'elettromagnetismo" dice Roberto Olmi dell'Istituto di fisica applicata del Cnr di Firenze. "Fino a quando non si è aperta la strada ai metamateriali: strutture che assumono proprietà fisiche sconosciute in natura, grazie a una particolare disposizione delle componenti microscopiche".
Se immergiamo un bastone nell'acqua ci appare spezzato. "Da un bastone immerso in un metamateriale si otterrebbe un'immagine opposta rispetto a quella riflessa dall'acqua. In termini tecnici diciamo che puntiamo a ottenere un indice di rifrazione negativo" spiega Olmi. Toccando i tasti giusti su questo pianoforte, è possibile rendere trasparenti tutti gli oggetti. "Per il momento - prosegue il ricercatore del Cnr - sapremmo farlo solo "cancellando" un colore alla volta. Ma sovrapponendo strati diversi del metamateriale adatto, ognuno specifico per un colore, potremmo realizzare il vero mantello invisibile".
L'oggetto si presenterà come un puzzle di strutture geometriche simili ad anelli aperti e minuscoli cilindri. Ognuno di essi sarà capace di catturare e deviare il proprio fascio di luce. Anche se, come spiega Pendry, utilizzare il mantello sarà tutt'altro che facile: "Per essere invisibili dobbiamo indossarlo, ma se lo indossiamo non possiamo guardare fuori. Senza contare la difficoltà di ritrovarlo dopo averlo tolto".
I risultati raggiunti oggi partono da lontano. "Alla fine degli anni '60 - racconta Giuseppe Molesini dell'Istituto nazionale di ottica applicata del Cnr - il fisico russo Victor Veselago aveva teorizzato tutto questo, senza avere nessuno dei mezzi di cui disponiamo oggi. I suoi studi sono stati ripresi solo trent'anni più tardi. Molte delle prove sperimentali dimostrano che aveva visto giusto". Se poi il mantello invisibile dovesse risultare del tutto inutile, i metamateriali potranno sempre servire a costruire microscopi potenti e fotografie tecnicamente perfette.
Fonte: Repubblica
Usa. Iowa. Candidato governatore apre alla clonazione terapeutica
Il candidato democratico a governatore Mike Blouin ha detto lo scorso 13 maggio di essere favorevole alla modifica delle leggi dell'Iowa per permettere agli scienziati di creare embrioni umani per la ricerca.
L'ex-direttore per lo sviluppo economico dello Stato, che lo scorso anno aveva espresso il suo sostegno ad una messa al bando di questo tipo di procedura, ha detto che la sua posizione rappresenta la consapevolezza che l'Iowa rimane sempre piu' indietro nel campo della ricerca rispetto a molti altri Stati. "La legge e' antiquata", ha detto Blouin. "La dobbiamo aggiornare per permettere la ricerca sulla clonazione terapeutica".
L'argomento e' al centro di una battaglia fra Blouin ed il Segretario di Stato Chet Culver. Il 21 maggio, Culver ha lanciato una serie di attacchi accusando Blouin di essere sulle stesse posizioni di Bush in tema di ricerca con le cellule staminali. Durante una intervista lo scorso novembre, Blouin aveva infatti detto di essere favorevole al mantenimento di una legge varata quattro anni prima che tuttora vieta la creazione artificiale di embrioni umani per la coltivazione di cellule staminali.
All'epoca Blouin aveva detto di sostenere la ricerca con le cellule staminali e di ritenere la legge in vigore sufficiente. "Se lasciamo la legge cosi' come e', noi permetteremo tutta la ricerca di cui abbiamo bisogno". Allo stesso tempo, Culver, allora candidato alla nomination democratica a governatore, disse di voler eliminare il divieto.
Ora anche Blouin, poche ore dopo l'attacco di Culver, ha detto di essere aperto all'idea di modificare la normativa vigente.
Fonte: Cellule Staminali
L'ex-direttore per lo sviluppo economico dello Stato, che lo scorso anno aveva espresso il suo sostegno ad una messa al bando di questo tipo di procedura, ha detto che la sua posizione rappresenta la consapevolezza che l'Iowa rimane sempre piu' indietro nel campo della ricerca rispetto a molti altri Stati. "La legge e' antiquata", ha detto Blouin. "La dobbiamo aggiornare per permettere la ricerca sulla clonazione terapeutica".
L'argomento e' al centro di una battaglia fra Blouin ed il Segretario di Stato Chet Culver. Il 21 maggio, Culver ha lanciato una serie di attacchi accusando Blouin di essere sulle stesse posizioni di Bush in tema di ricerca con le cellule staminali. Durante una intervista lo scorso novembre, Blouin aveva infatti detto di essere favorevole al mantenimento di una legge varata quattro anni prima che tuttora vieta la creazione artificiale di embrioni umani per la coltivazione di cellule staminali.
All'epoca Blouin aveva detto di sostenere la ricerca con le cellule staminali e di ritenere la legge in vigore sufficiente. "Se lasciamo la legge cosi' come e', noi permetteremo tutta la ricerca di cui abbiamo bisogno". Allo stesso tempo, Culver, allora candidato alla nomination democratica a governatore, disse di voler eliminare il divieto.
Ora anche Blouin, poche ore dopo l'attacco di Culver, ha detto di essere aperto all'idea di modificare la normativa vigente.
Fonte: Cellule Staminali
25 maggio 2006
Honda: questa è l'interfaccia neurale
Il gigante giapponese parla di successo eclatante per i suoi esperimenti: la nuova interfaccia collega cervello e macchina. Funziona misurando l'irrorazione sanguigna delle aree cerebrali
Tokyo - I ricercatori di Honda hanno sviluppato una interfaccia neurale progettata per il controllo di macchine, dispositivi elettronici e soprattutto robot. Si chiama BMI, Brain Machine Interface , ed il suo funzionamento si basa sul rilevamento dell'attività cerebrale. "L'uso di questa macchina non richiede né interventi chirurgici né allenamenti particolari", dicono i portavoce di Honda. A differenza del chip cerebrale , l'apparecchio di Honda non è assolutamente invasivo.
Il dott. Yukiyasu Kamitami, inventore dell'interfaccia, è infatti riuscito ad assemblare un sensore a risonanza magnetica che identifica con estrema precisione l'irroramento sanguigno delle varie regioni cerebrali. Il meccanismo fondamentale di questo avveniristico sistema di comando è concettualmente molto semplice: se ad ogni attività umana corrisponde una maggiore sollecitazioni di aree specifiche del cervello e se BMI riesce a riconoscere quando queste zone entrano "in funzione", il passo successivo è trasformare questi output in impulsi digitali. Da questo punto di vista, BMI sembra molto simile all' interfaccia non invasiva sviluppata da alcuni ricercatori di New York, negli Stati Uniti.
Nell'esperimento condotto dall'equipe di Kamitami, che lo considera un "eccezionale passo in avanti nello studio dei legami possibili tra uomo e macchina", il soggetto equipaggiato di BMI è stato in grado di muovere un braccio del celebre robot Asimo, sviluppato dalla stessa Honda, semplicemente muovendo le proprie mani. L'interfaccia è riuscita a captare con una precisione dell'85% i movimenti delle mani del soggetto, al quale è stato richiesto di "simulare una partita di morra cinese".
Il risultato, dicono i ricercatori, è stato strabiliante: sebbene con un tempo di risposta molto lungo, pari a 7 secondi, il braccio robotico collegato a BMI è stato in grado di simulare con cura le varie "giocate" del soggetto. BMI ha "capito" se il soggetto stesse "lanciando" carta, forbici o sasso. Questo perché, spiegano gli scienziati di Honda, "è molto più facile rilevare l'attività cerebrale conseguente ad un gesto che quella conseguente ad un pensiero astratto".
Fonte: Punto informatico
Tokyo - I ricercatori di Honda hanno sviluppato una interfaccia neurale progettata per il controllo di macchine, dispositivi elettronici e soprattutto robot. Si chiama BMI, Brain Machine Interface , ed il suo funzionamento si basa sul rilevamento dell'attività cerebrale. "L'uso di questa macchina non richiede né interventi chirurgici né allenamenti particolari", dicono i portavoce di Honda. A differenza del chip cerebrale , l'apparecchio di Honda non è assolutamente invasivo.
Il dott. Yukiyasu Kamitami, inventore dell'interfaccia, è infatti riuscito ad assemblare un sensore a risonanza magnetica che identifica con estrema precisione l'irroramento sanguigno delle varie regioni cerebrali. Il meccanismo fondamentale di questo avveniristico sistema di comando è concettualmente molto semplice: se ad ogni attività umana corrisponde una maggiore sollecitazioni di aree specifiche del cervello e se BMI riesce a riconoscere quando queste zone entrano "in funzione", il passo successivo è trasformare questi output in impulsi digitali. Da questo punto di vista, BMI sembra molto simile all' interfaccia non invasiva sviluppata da alcuni ricercatori di New York, negli Stati Uniti.
Nell'esperimento condotto dall'equipe di Kamitami, che lo considera un "eccezionale passo in avanti nello studio dei legami possibili tra uomo e macchina", il soggetto equipaggiato di BMI è stato in grado di muovere un braccio del celebre robot Asimo, sviluppato dalla stessa Honda, semplicemente muovendo le proprie mani. L'interfaccia è riuscita a captare con una precisione dell'85% i movimenti delle mani del soggetto, al quale è stato richiesto di "simulare una partita di morra cinese".
Il risultato, dicono i ricercatori, è stato strabiliante: sebbene con un tempo di risposta molto lungo, pari a 7 secondi, il braccio robotico collegato a BMI è stato in grado di simulare con cura le varie "giocate" del soggetto. BMI ha "capito" se il soggetto stesse "lanciando" carta, forbici o sasso. Questo perché, spiegano gli scienziati di Honda, "è molto più facile rilevare l'attività cerebrale conseguente ad un gesto che quella conseguente ad un pensiero astratto".
Fonte: Punto informatico
Germania. La ricerca sulle staminali tenta la carta degli embrioni imperfetti
Joachim Mueller-Jung ha scritto una corrispondenza per la Frankfurter Allgemeine Zeitung, di cui riportiamo una traduzione
Forse qualcuno si aspettava una parola chiara da Rudolf Jaenisch e Hans Schoeler riguardo allo scandalo coreano della clonazione. L’occasione era importante, essendo il primo incontro, in terra tedesca, dell’élite internazionale delle staminali dopo lo scandalo di Seoul che, in un solo colpo, ha riportato la “clonazione terapeutica” concreta a mera ipotesi. Ma nel padiglione della Muensterlandhalle, eletta per l’occasione dal Nordrhein-Westfalen a importante tribuna scientifica, la drammaturgia era di altro segno. Come a dire… la Corea e’ lontana. Il convegno era chiamato a dimostrare dinamismo biopolitico e un convinto spirito progressista. Il tono l’ha dato Rudolf Jaenisch, il biologo tedesco che al Massachusetts Institute of Technology di Cambridge e’ stato un pioniere della genetica e della clonazione, e da molti e’ considerato lo spiritus rector della ricerca sulle staminali.
Egli non ha lasciato spazio al minimo dubbio sul fatto che, nonostante tutte le possibili falsificazioni, un giorno si arrivera’ alla cosiddetta clonazione terapeutica, vale a dire alla produzione di cellule staminali dello stesso paziente mediante trasferimento nucleare. Quel giorno non e’ lontano, e non importa dove succedera’ ne’ come. Preferibilmente senza ricorrere agli ovociti, ma con la semplice riprogrammazione delle cellule del paziente. O, ancora prima, probabilmente con un procedimento che negli ultimi mesi ha raccolto grande attenzione, l’“Altered Nuclear Transfer” (il trasferimento nucleare alterato). Di che si tratta? Attraverso interventi sul genoma, dovrebbe essere possibile produrre un embrione incompleto, ossia non idoneo a svilupparsi pienamente. Jaenisch sa bene che anche nelle proprie fila si dubita che la formazione di “embrioni mutilati” possa eliminare il problema etico che accompagna la ricerca sulle staminali; molti pensano che si tratti pur sempre della distruzione di una potenziale vita umana. E’ dunque impossibile superare l’ostacolo?
Qui e’ intervenuto Hans Schoeler, organizzatore del convegno, direttore per l’Istituto Max-Planck del settore di biomedicina molecolare, con un ruolo importante nella ricerca sulle staminali e con responsabilita’ anche politiche. Schoeler ha rilanciato al mondo politico ed etico un’offerta ritenuta a lungo troppo vaga: la produzione di cellule staminali embrionali da ovociti, ottenute prima di approdare allo stadio di totipotenza (il criterio fondamentale della legge tedesca che tutela l’embrione). Il tutto senza ricorrere a manipolazione genetica. Schoeler e i suoi collaboratori hanno sperimentato questo procedimento sui topi. Il punto centrale e’ il gene Cdx2, la cui attivita’ e’ decisiva nelle successive fasi di sviluppo per la formazione della placenta e quindi per l’annidamento dell’embrione nell’utero. Il suo gruppo ha scoperto che questo gene normalmente si attiva subito dopo la fecondazione, quando i pre-nuclei materno e paterno sono ancora divisi nell’ovocita e la loro fusione non e’ ancora avvenuta. Da un punto di vista giuridico questi stadi non sono considerati come totipotenti. Sicche’, intervenendo in questa fase con un nuovo procedimento biotecnologico chiamato Interferenza RNS, si possono ottenere “palline di cellule staminali” e, alcuni giorni dopo, “cisti di cellule staminali”, che non potranno mai svilupparsi in embrioni. In compenso, forniranno cellule staminali.
E anche in buon numero, come ha constatato la collaboratrice di Schoeler, Guangming Wu: dalle precoci proto-palline di cellule staminali si ricava il 50% in piu’ di staminali embrionali rispetto alle comuni blastocisti. Schoeler ritiene che quest’intervento sull’ovocita spalanchi anche la porta alla cosiddetta clonazione terapeutica. Il trasferimento del genoma dei nuclei cellulari del paziente precederebbe infatti l’attivazione del gene Cdx2. Cosi’ resterebbe tempo sufficiente per disattivare il gene nel nucleo da trapiantare, e quindi sbarrare la strada all’evoluzione completa dell’embrione.
Cancellando letteralmente lo sviluppo potenziale in embrione, si potra’ cancellare anche qualsiasi scrupolo morale? Non e’ solo Schoeler ad auspicarlo. Come si e’ potuto chiaramente constatare a Muenster, al di la’ delle simpatie nazionali per le staminali adulte che sono scevre da problemi etici, le cellule embrionali rimangono pur sempre l’ultima ratio dell’ingegneria cellulare.
Forse qualcuno si aspettava una parola chiara da Rudolf Jaenisch e Hans Schoeler riguardo allo scandalo coreano della clonazione. L’occasione era importante, essendo il primo incontro, in terra tedesca, dell’élite internazionale delle staminali dopo lo scandalo di Seoul che, in un solo colpo, ha riportato la “clonazione terapeutica” concreta a mera ipotesi. Ma nel padiglione della Muensterlandhalle, eletta per l’occasione dal Nordrhein-Westfalen a importante tribuna scientifica, la drammaturgia era di altro segno. Come a dire… la Corea e’ lontana. Il convegno era chiamato a dimostrare dinamismo biopolitico e un convinto spirito progressista. Il tono l’ha dato Rudolf Jaenisch, il biologo tedesco che al Massachusetts Institute of Technology di Cambridge e’ stato un pioniere della genetica e della clonazione, e da molti e’ considerato lo spiritus rector della ricerca sulle staminali.
Egli non ha lasciato spazio al minimo dubbio sul fatto che, nonostante tutte le possibili falsificazioni, un giorno si arrivera’ alla cosiddetta clonazione terapeutica, vale a dire alla produzione di cellule staminali dello stesso paziente mediante trasferimento nucleare. Quel giorno non e’ lontano, e non importa dove succedera’ ne’ come. Preferibilmente senza ricorrere agli ovociti, ma con la semplice riprogrammazione delle cellule del paziente. O, ancora prima, probabilmente con un procedimento che negli ultimi mesi ha raccolto grande attenzione, l’“Altered Nuclear Transfer” (il trasferimento nucleare alterato). Di che si tratta? Attraverso interventi sul genoma, dovrebbe essere possibile produrre un embrione incompleto, ossia non idoneo a svilupparsi pienamente. Jaenisch sa bene che anche nelle proprie fila si dubita che la formazione di “embrioni mutilati” possa eliminare il problema etico che accompagna la ricerca sulle staminali; molti pensano che si tratti pur sempre della distruzione di una potenziale vita umana. E’ dunque impossibile superare l’ostacolo?
Qui e’ intervenuto Hans Schoeler, organizzatore del convegno, direttore per l’Istituto Max-Planck del settore di biomedicina molecolare, con un ruolo importante nella ricerca sulle staminali e con responsabilita’ anche politiche. Schoeler ha rilanciato al mondo politico ed etico un’offerta ritenuta a lungo troppo vaga: la produzione di cellule staminali embrionali da ovociti, ottenute prima di approdare allo stadio di totipotenza (il criterio fondamentale della legge tedesca che tutela l’embrione). Il tutto senza ricorrere a manipolazione genetica. Schoeler e i suoi collaboratori hanno sperimentato questo procedimento sui topi. Il punto centrale e’ il gene Cdx2, la cui attivita’ e’ decisiva nelle successive fasi di sviluppo per la formazione della placenta e quindi per l’annidamento dell’embrione nell’utero. Il suo gruppo ha scoperto che questo gene normalmente si attiva subito dopo la fecondazione, quando i pre-nuclei materno e paterno sono ancora divisi nell’ovocita e la loro fusione non e’ ancora avvenuta. Da un punto di vista giuridico questi stadi non sono considerati come totipotenti. Sicche’, intervenendo in questa fase con un nuovo procedimento biotecnologico chiamato Interferenza RNS, si possono ottenere “palline di cellule staminali” e, alcuni giorni dopo, “cisti di cellule staminali”, che non potranno mai svilupparsi in embrioni. In compenso, forniranno cellule staminali.
E anche in buon numero, come ha constatato la collaboratrice di Schoeler, Guangming Wu: dalle precoci proto-palline di cellule staminali si ricava il 50% in piu’ di staminali embrionali rispetto alle comuni blastocisti. Schoeler ritiene che quest’intervento sull’ovocita spalanchi anche la porta alla cosiddetta clonazione terapeutica. Il trasferimento del genoma dei nuclei cellulari del paziente precederebbe infatti l’attivazione del gene Cdx2. Cosi’ resterebbe tempo sufficiente per disattivare il gene nel nucleo da trapiantare, e quindi sbarrare la strada all’evoluzione completa dell’embrione.
Cancellando letteralmente lo sviluppo potenziale in embrione, si potra’ cancellare anche qualsiasi scrupolo morale? Non e’ solo Schoeler ad auspicarlo. Come si e’ potuto chiaramente constatare a Muenster, al di la’ delle simpatie nazionali per le staminali adulte che sono scevre da problemi etici, le cellule embrionali rimangono pur sempre l’ultima ratio dell’ingegneria cellulare.
Fonte: Cellule Staminali
23 maggio 2006
Usa, una gara tra muli clonati e "naturali"
WINNEMUCCA (Stati Uniti) - In giugno a Winnemucca, Nevada, si terrà una gara di corsa tra muli alla quale parteciperanno, tra gli altri, Idaho Gem e Idaho Star, clonati dallo stesso Dna.
LA STORIA - Nel 2001 un mulo di nome Taz, di proprietà di Don Jackline, vinse la gara della California State Fair. Don Jackline voleva continuare a vincere con un successore del suo Taz, ma essendo i muli il risultato di un'ibridazione tra una cavalla e un asino sono sterili. Si rivolse allora al Northwest Equine Reproduction Laboratory di Moscow, Idaho, il quale in collaborazione con la University of Idaho e la Utah State University creò un team di genetisti e scienziati per cercare di portare a termine ciò che nessuno prima di allora era riuscito a fare: clonare un equino.
FIOCCO AZZURRO - Il 4 maggio 2003 venne alla luce Idaho Gem, il risultato della clonazione di un embrione di 45 giorni frutto dell'accoppiamento degli stessi genitori di Taz. Il pool di scienziati clonò altri due muli dallo stesso Dna. Uno di questi venne chiamato Idaho Star. I due gemelli "artificiali" sono stati tenuti separati per due anni, in modo da poter valutare l'incidenza di variabili come la dieta o i metodi di addestramento sullo sviluppo delle loro qualità di corridori. Gli esperti di questo settore comunque sottolineano che non vi è alcuna garanzia che i cloni, solo perché hanno un corredo genetico da campioni, lo siano anche sul campo. Qualunque sia l'esito della competizione, il successo di Idaho Star e Idaho Gem sarà quello di arrivare a essere muli tra i muli. Vinca il migliore.
Fonte: Corriere della Sera
LA STORIA - Nel 2001 un mulo di nome Taz, di proprietà di Don Jackline, vinse la gara della California State Fair. Don Jackline voleva continuare a vincere con un successore del suo Taz, ma essendo i muli il risultato di un'ibridazione tra una cavalla e un asino sono sterili. Si rivolse allora al Northwest Equine Reproduction Laboratory di Moscow, Idaho, il quale in collaborazione con la University of Idaho e la Utah State University creò un team di genetisti e scienziati per cercare di portare a termine ciò che nessuno prima di allora era riuscito a fare: clonare un equino.
FIOCCO AZZURRO - Il 4 maggio 2003 venne alla luce Idaho Gem, il risultato della clonazione di un embrione di 45 giorni frutto dell'accoppiamento degli stessi genitori di Taz. Il pool di scienziati clonò altri due muli dallo stesso Dna. Uno di questi venne chiamato Idaho Star. I due gemelli "artificiali" sono stati tenuti separati per due anni, in modo da poter valutare l'incidenza di variabili come la dieta o i metodi di addestramento sullo sviluppo delle loro qualità di corridori. Gli esperti di questo settore comunque sottolineano che non vi è alcuna garanzia che i cloni, solo perché hanno un corredo genetico da campioni, lo siano anche sul campo. Qualunque sia l'esito della competizione, il successo di Idaho Star e Idaho Gem sarà quello di arrivare a essere muli tra i muli. Vinca il migliore.
Fonte: Corriere della Sera
19 maggio 2006
Staminali: Muscolo,Embrionali Umane Trasferite In Topi
Cellule staminali embrionali umane sono state trasformate, in laboratorio, in cellule del muscolo scheletrico e quindi iniettate in topi con muscoli lesionati.
Non soltanto le nuove cellule sono riuscite a riparare il danno, ma si sono perfettamente integrate con le altre cellule dell'animale e si sono mantenute sicure e stabili.
Il risultato, che getta basi concrete verso il futuro uso clinico delle cellule staminali embrionali, e' stato ottenuto da Tiziano Barberi negli Stati Uniti, dove il ricercatore lavora presso lo Sloan-Kettering Institute di New York.
''Abbiamo ottimizzato le condizioni per ottenere le cellule del muscolo scheletrico, un passo molto importante per le applicazioni cliniche future'', ha osservato Barberi, che ha presentato i risultati oggi a Pavia nel convegno internazionale sulle cellule staminali organizzato dai dipartimenti di Scienze chirurgiche e di Biologia animale.
I nuovi dati sono lo sviluppo di un lavoro pubblicato dallo stesso Barberi lo scorso anno . Naturalmente c'e' ancora tantissima strada da fare nella ricerca prima di trasformare le cellule staminali in cure, ancora tanti test da fare sugli animali per verificare l'efficacia, ma essere riusciti a controllare e stabilizzare la crescita di queste cellule primitive getta le basi per tutti i test futuri e trasforma l'idea dell'uso terapeutico di queste cellule in un'ipotesi di lavoro concreta.
In laboratorio i ricercatori hanno fatto sviluppare le cellule staminali embrionali umane fino ad ottenere le cellule muscolari allo stadio piu' maturo (mioblasti) e da queste hanno poi ottenuto fibre muscolari rudimentali. Quindi le cellule dei muscoli sono state trasferite in topi che avevano serie lesioni muscolari e che appartenevano a un ceppo di sistema immunitario indebolito in modo da accettare le cellule umane. Una proteina luminosa chiamata luciferasi, la stessa utilizzata dalle lucciole, ha permesso ai ricercatori di seguire in modo non invasivo l'andamento delle cellule muscolari trapiantate nei muscoli tibiali dei topi. L'obiettivo era controllare la sopravvivenza delle cellule e soprattutto verificare se si integravano con il muscolo dell'animale. I risultati positivi ottenuti, ha detto Barberi, sono ''il primo passo per dimostrare che dalle cellule staminali embrionali umane si possono ottenere cellule specializzate e che queste, una volta inserite nell'animale, si integrano e svolgono la loro funzione''.
Il prossimo passo sara' trapiantare le cellule in topi nei quali sono riprodotte malattie degenerative dei muscoli. ''In questo modo potremo vedere se le cellule sono in grado di integrarsi e se si verifica un effetto terapeutico'', ha osservato Barberi, che ha lasciato l'Italia otto anni fa e che sta per trasferirsi dallo Sloan-Kettering al Beckman Research Institute of the City oh Hope, a pochi chilometri da Los Angeles.
Si tratta, ha aggiunto, di ''un ulteriore passo verso la possibilita' di verificare l'enorme potenziale delle cellule embrionali. Con questo lavoro abbiamo dimostrato che siamo in grado di controllarle e di ottenere una progenie specializzata e che, una volta trasferite negli animali, queste cellule mantengono le loro caratteristiche''. Una volta purificate, le cellule prendono la loro strada nello sviluppo e non si alterano: e' ''un'ottima indicazione sulla possibilita' di poter utilizzare in futuro le cellule staminali embrionali per la cura di malattie. Fino a due o tre anni fa - ha concluso - non sapevamo se queste cellule avrebbero potuto mantenere le loro promesse. Ma adesso siamo finalmente in grado di farle differenziare selettivamente, di manipolarle in vitro, abbiamo dimostrato che sono stabili e che una volta trasferite si integrano nell'organimo che le riceve''
Fonte: Yahoo Notizie
Non soltanto le nuove cellule sono riuscite a riparare il danno, ma si sono perfettamente integrate con le altre cellule dell'animale e si sono mantenute sicure e stabili.
Il risultato, che getta basi concrete verso il futuro uso clinico delle cellule staminali embrionali, e' stato ottenuto da Tiziano Barberi negli Stati Uniti, dove il ricercatore lavora presso lo Sloan-Kettering Institute di New York.
''Abbiamo ottimizzato le condizioni per ottenere le cellule del muscolo scheletrico, un passo molto importante per le applicazioni cliniche future'', ha osservato Barberi, che ha presentato i risultati oggi a Pavia nel convegno internazionale sulle cellule staminali organizzato dai dipartimenti di Scienze chirurgiche e di Biologia animale.
I nuovi dati sono lo sviluppo di un lavoro pubblicato dallo stesso Barberi lo scorso anno . Naturalmente c'e' ancora tantissima strada da fare nella ricerca prima di trasformare le cellule staminali in cure, ancora tanti test da fare sugli animali per verificare l'efficacia, ma essere riusciti a controllare e stabilizzare la crescita di queste cellule primitive getta le basi per tutti i test futuri e trasforma l'idea dell'uso terapeutico di queste cellule in un'ipotesi di lavoro concreta.
In laboratorio i ricercatori hanno fatto sviluppare le cellule staminali embrionali umane fino ad ottenere le cellule muscolari allo stadio piu' maturo (mioblasti) e da queste hanno poi ottenuto fibre muscolari rudimentali. Quindi le cellule dei muscoli sono state trasferite in topi che avevano serie lesioni muscolari e che appartenevano a un ceppo di sistema immunitario indebolito in modo da accettare le cellule umane. Una proteina luminosa chiamata luciferasi, la stessa utilizzata dalle lucciole, ha permesso ai ricercatori di seguire in modo non invasivo l'andamento delle cellule muscolari trapiantate nei muscoli tibiali dei topi. L'obiettivo era controllare la sopravvivenza delle cellule e soprattutto verificare se si integravano con il muscolo dell'animale. I risultati positivi ottenuti, ha detto Barberi, sono ''il primo passo per dimostrare che dalle cellule staminali embrionali umane si possono ottenere cellule specializzate e che queste, una volta inserite nell'animale, si integrano e svolgono la loro funzione''.
Il prossimo passo sara' trapiantare le cellule in topi nei quali sono riprodotte malattie degenerative dei muscoli. ''In questo modo potremo vedere se le cellule sono in grado di integrarsi e se si verifica un effetto terapeutico'', ha osservato Barberi, che ha lasciato l'Italia otto anni fa e che sta per trasferirsi dallo Sloan-Kettering al Beckman Research Institute of the City oh Hope, a pochi chilometri da Los Angeles.
Si tratta, ha aggiunto, di ''un ulteriore passo verso la possibilita' di verificare l'enorme potenziale delle cellule embrionali. Con questo lavoro abbiamo dimostrato che siamo in grado di controllarle e di ottenere una progenie specializzata e che, una volta trasferite negli animali, queste cellule mantengono le loro caratteristiche''. Una volta purificate, le cellule prendono la loro strada nello sviluppo e non si alterano: e' ''un'ottima indicazione sulla possibilita' di poter utilizzare in futuro le cellule staminali embrionali per la cura di malattie. Fino a due o tre anni fa - ha concluso - non sapevamo se queste cellule avrebbero potuto mantenere le loro promesse. Ma adesso siamo finalmente in grado di farle differenziare selettivamente, di manipolarle in vitro, abbiamo dimostrato che sono stabili e che una volta trasferite si integrano nell'organimo che le riceve''
Fonte: Yahoo Notizie
13 maggio 2006
Feto sano grazie alla genetica nascerà senza cancro ereditario
Gb, primo caso di embrione 'selezionato' per evitare tumore alla retina. Il concepimento in provetta, poi i test per individuare i geni 'cattivi'
LONDRA - I genitori non hanno ancora scelto il nome, ma è certo che il feto nel grembo di una donna britannica nascerà senza alcuna forma di cancro ereditario. La madre, pur non presentando problemi di fertilità, si è sottoposta a una terapia genetica e alla fertilizzazione in vitro per evitare che il futuro bebè soffrisse della sua stessa forma di tumore alla retina, il retinoblastinoma, che si manifesta entro il primo anno di vita. E' la prima volta che questa tecnica, già sperimentata con successo negli Stati Uniti, viene applicata in Gran Bretagna.
Dagli embrioni creati dalla coppia, i medici dello University College Hospital di Londra hanno prelevato alcune cellule, sottoposte a una serie di test genetici per individuare quelli che avevano ereditato il cancro, di modo che solo gli embrioni sani fossero poi impiantati nell'utero della donna. I dottori hanno assicurato che il piccolo non contrarrà il tumore della retina. "Siamo euforici", ha detto Paul Serhal, responsabile del trattamento. "In questo modo possiamo estirpare la catena del tumore dall'intera linea familiare".
Fino a un anno fa, la Human Fertilisation and Embryology Authority (HFEA), autorità governativa per controllo della fecondazione assistita, permetteva cure di questo tipo solo nei casi in cui non esistevano dubbi che sulla possibilità di sviluppare la malattia, come nel caso della fibrosi cistica. Recentemente, però, la HFEA ha concesso il ricorso allo screening genetico anche nei soggetti ad alto rischio di contrarre alcuni tipi di tumore: al seno, alle ovaia e al colon, o - come in questo caso - all'occhio. Così, i pazienti con mutazioni genetiche strettamente connesse al rischio di sviluppare malattie tumorali possono almeno evitare che i propri figli ereditino la stessa sorte.
Accolta con grande enfasi dalla comunità scientifica, la decisione governativa ha suscitato le polemiche di gruppi di bioetica. "Non possiamo dimenticare che in questo modo si autorizza alla vita un solo embrione, mentre gli altri non hanno lo stesso diritto di venire al mondo", spiega Josephine Quintavalle, membro del Comment on Reproductive Ethics, associazione che difende i diritti dell'embrione.
Fonte: Repubblica
12 maggio 2006
Usa: premio 50mln per auto idrogeno
WASHINGTON, 11 MAG - Un premio milionario a chi inventa tecnologie d'avanguardia per veicoli a idrogeno: e' la sfida americana alla propria fame d'energia. La Camera Usa ha approvato l'H-Prize, un programma da 50 milioni di dollari per stimolare gli Archimede americani. Lo stanziamento prevede un superpremio da 10 milioni di dollari e vari da 1 a 4 milioni da assegnare nei prossimi 10 anni a innovazioni tecnologiche che permettano di rendere una realta' l'utilizzo nelle strade di auto ad idrogeno.
10 maggio 2006
Roboanimali al pascolo nelle campagne europee
Lo garantisce Jean-Louis Deneubourg, coordinatore di un progetto di ricerca finanziato dalla Commissione Europea. Mucche e polli cibernetici sono già all'orizzonte: rilanceranno la produzione agricola nell'Unione Europea
Bruxelles - Un branco di animali di metallo e silicio si staglia nel futuro dell'Unione Europea. Fantascienza? Niente affatto: secondo Jean-Louis Deneubourg, coordinatore del progetto LEURRE finanziato dalla Commissione Europea, "l'allevamento di bestiame in Europa può sopravvivere solo se associato all'alta tecnologia", ma soprattutto se sposerà "l'uso di robot in grado di interagire con gli animali".
Deneubourg, professore presso la Université libre de Bruxelles, è alla guida del team d'esperti europei che ha realizzato i microautomi chiamati InsBot , gli scarafaggi robotici capaci di comunicare con i loro simili biologici. Lo sviluppo di InsBot rappresenta la punta di diamante negli studi europei che vagliano le infinite possibilità offerte dall' interazione tra macchina ed animale . Il sogno che anima il progetto LEURRE è antico ed affascinante: modificare radicalmente la biosfera, giocando in buona sostanza il ruolo di divinità.
"Il nostro obiettivo principale", fa notare Deneubourg, "è di sviluppare robot autonomi che cooperino con gli animali e soprattutto riescano ad influenzarne il comportamento". I roboanimali del futuro non solo avranno le sembianze di veri esseri viventi, ma dovranno essere in grado di "svolgere numerose operazioni a contatto con le loro controparti naturali", dice il ricercatore. Dalla mungitura fino alla guida dei pascoli, dal controllo comportamentale dei capi di bestiame fino all'assistenza veterinaria: sarà una vera e propria rivoluzione.
"Bisogna sviluppare macchine capaci di gestire contemporaneamente un'intera gamma di stimoli sensoriali e biochimici, siano essi di tipo biologico o artificiale", spiega Deneubourg. Gli esemplari di InsBot, ad esempio, utilizzano feromoni artificiali per condizionare e manipolare il movimento delle colonie di scarafaggi. "Finora abbiamo dimostrato che un agente artificiale, in questo caso un robot, è riuscito a modificare il comportamento collettivo di particolari insetti", ricorda Deneubourg riferendosi esplicitamente al progetto InsBot.
Il prossimo passo è quindi scontato: manipolare mammiferi ed altre categorie di viventi , così da massimizzare la produzione agricola ed offrire numerose opportunità di ricerca e sperimentazione ad etologi, biologi ed ingegneri robotici. "I risultati degli esperimenti condotti con InsBot", conclude il direttore del progetto LEURRE, "rendono chiaro che questo tipo d'iniziative permettono un approfondimento generale di numerose branche scientifiche, dallo sviluppo di sistemi informatici fino alla comprensione dei meccanismi di comunicazione animale".
Fonte: Punto informatico
Bruxelles - Un branco di animali di metallo e silicio si staglia nel futuro dell'Unione Europea. Fantascienza? Niente affatto: secondo Jean-Louis Deneubourg, coordinatore del progetto LEURRE finanziato dalla Commissione Europea, "l'allevamento di bestiame in Europa può sopravvivere solo se associato all'alta tecnologia", ma soprattutto se sposerà "l'uso di robot in grado di interagire con gli animali".
Deneubourg, professore presso la Université libre de Bruxelles, è alla guida del team d'esperti europei che ha realizzato i microautomi chiamati InsBot , gli scarafaggi robotici capaci di comunicare con i loro simili biologici. Lo sviluppo di InsBot rappresenta la punta di diamante negli studi europei che vagliano le infinite possibilità offerte dall' interazione tra macchina ed animale . Il sogno che anima il progetto LEURRE è antico ed affascinante: modificare radicalmente la biosfera, giocando in buona sostanza il ruolo di divinità.
"Il nostro obiettivo principale", fa notare Deneubourg, "è di sviluppare robot autonomi che cooperino con gli animali e soprattutto riescano ad influenzarne il comportamento". I roboanimali del futuro non solo avranno le sembianze di veri esseri viventi, ma dovranno essere in grado di "svolgere numerose operazioni a contatto con le loro controparti naturali", dice il ricercatore. Dalla mungitura fino alla guida dei pascoli, dal controllo comportamentale dei capi di bestiame fino all'assistenza veterinaria: sarà una vera e propria rivoluzione.
"Bisogna sviluppare macchine capaci di gestire contemporaneamente un'intera gamma di stimoli sensoriali e biochimici, siano essi di tipo biologico o artificiale", spiega Deneubourg. Gli esemplari di InsBot, ad esempio, utilizzano feromoni artificiali per condizionare e manipolare il movimento delle colonie di scarafaggi. "Finora abbiamo dimostrato che un agente artificiale, in questo caso un robot, è riuscito a modificare il comportamento collettivo di particolari insetti", ricorda Deneubourg riferendosi esplicitamente al progetto InsBot.
Il prossimo passo è quindi scontato: manipolare mammiferi ed altre categorie di viventi , così da massimizzare la produzione agricola ed offrire numerose opportunità di ricerca e sperimentazione ad etologi, biologi ed ingegneri robotici. "I risultati degli esperimenti condotti con InsBot", conclude il direttore del progetto LEURRE, "rendono chiaro che questo tipo d'iniziative permettono un approfondimento generale di numerose branche scientifiche, dallo sviluppo di sistemi informatici fino alla comprensione dei meccanismi di comunicazione animale".
Fonte: Punto informatico
08 maggio 2006
Androide donna Q-2
Vi ricordate dell'androide donna creata dal Prof. Hiroshi Ishiguro presentata all'Expo2005 di Aichi? Ebbene il progetto dell'androide donna è passato dal modello Q-1 al modello Q-2. Guardate attentamente il filmato. Notevole vero?
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