27 febbraio 2006

USA, scanner dell'iride a scuola

Una scuola elementare nel New Jersey sperimenta l'uso di scanner dell'iride. L'accesso all'istituto verrà subordinato all'identificazione biometrica.

Freehold (USA) - La rivoluzione biometrica, a tinte fantascientifiche, potrebbe partire da una piccola scuola elementare nello stato del New Jersey. Il primo dispositivo pubblico per l'identificazione automatica dell'iride è stato installato nella Park Avenue Elementary School di Freehold, nella zona suburbana di New York.

Equipaggiato con tecnologie LG ed HP, l'apparecchio è una piccola scatola metallica che monta una telecamera digitale di precisione. Posizionata all'entrata principale dell'istituto, la macchina permette l'accesso al perimetro scolastico solo dopo la scansione oculare dei singoli visitatori: scolari, professori e genitori.

Il governo federale degli Stati Uniti ha stanziato ben 370mila dollari per la sperimentazione del sistema, che prevede la registrazione per tutti gli operatori scolastici e per tutti gli alunni. In questo modo, si apprende da fonti ufficiali, "l'accesso alle strutture scolastiche sarà strettamente sorvegliato e controllato". Bastano appena due secondi per eseguire ogni singola scansione ed identificare un visitatore.

Ciascuno studente ha quattro profili biometrici associati, riservati appositamente per i genitori, parenti o badanti che necessitassero di accedere alle strutture. Solo i "contatti sicuri" possono entrare dentro l'istituto: è una mossa preventiva per abbassare l'incidenza di rapimenti e sottrazioni di minori da parte di coniugi separati, fenomeno quest'ultimo più volte finito alla ribalta per le molte situazioni familiari "anomale", governate da precise prescrizioni giuridiche riguardo l'affidamento dei figli.

Il progetto non è stato accolto con troppo entusiasmo dalla comunità locale: solo 300 individui su 1500, tra alunni ed insegnanti, si sono registrati. Per tutti i visitatori che non intendono fornire il proprio profilo biometrico, l'apertura dell'entrata principale sarà a discrezione della segreteria.

L'adesione al sistema di riconoscimento biometrico non è infatti obbligatoria, in base alle garanzie sulla privacy riservate dalla legislazione americana. Le informazioni personali vengono archiviate in un database locale ed il direttore della Park Avenue School sostiene che "non verranno rilasciate assolutamente a terzi". Tuttavia, le forze dell'ordine potrebbero facilmente ottenere un mandato per requisire, in qualsiasi momento, tutti i dati contenuti nell'archivio.

L'idea di utilizzare le strutture dell'iride per costruire un sistema di identificazione viene da lontano: risale al 1936, ad opera dell'oftalmologo Frank Burch. Ma i primi scanner della retina hanno fatto capolino nell'immaginario collettivo grazie ai film di James Bond, negli anni ottanta. Il primo prototipo funzionante di scanner è stato realizzato solo nel 1987, immediatamente coperto da brevetto. Al giorno d'oggi, gli Stati Uniti sono l'unico stato ad aver abbracciato per una sperimentazione su vasta scala in ambito pubblico l'utilizzazione di questo metodo identificativo, finora impiegato solo in alcune carceri di massima sicurezza.

L'arrivo della biometria oculare in ambito pubblico è quindi una novità attesa: gli scenari proposti da film come Minority Report, dove l'intera popolazione utilizza i propri occhi per attivare qualsiasi tipo di dispositivo elettronico personalizzato, sono sempre meno distanti.

Fonte: Punto Informatico

26 febbraio 2006

Promet, un robot sostituirà i giovani

La popolazione invecchia e in Giappone si scommette su automi capaci di dare davvero una mano in casa. Diligenti e multifunzione, i nuovi maggiordomi lanciano la robotica asiatica.


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Tokyo - La robotica made in Japan non smette di stupire: l'ultimo robot prodotto dai progettisti nipponici, frutto di una sinergia economica e scientifica tra governo e privati, è un fantascientifico automa antropomorfo capace di... fare il maggiordomo.

Si chiama HRP-2, ma il suo nome in codice è Promet, ed è costruito dal gruppo Kawada Industries con il contributo dei ricercatori del Centro Giapponese per l'Industria ad Alta Tecnologia.

Promet pesa 58 chilogrammi, comprese le batterie, per 154 centimetri di plastica, silicio ed acciaio. La sua struttura gli permette una libertà d'azione invidiabile, pari ad una capacità di movimento su 30 assi differenti. Queste caratteristiche fanno di Promet una "piattaforma eccezionale per sviluppare numerose applicazioni", come dichiara Isao Hara, responsabile del progetto.

"Vogliamo costruire robot multifunzione ed interattivi sfruttando la piattaforma HRP-2", sostiene Hara, "come ad esempio degli automi antropomorfi che possano sostituire i cani-guida per ciechi". Hara pensa soprattutto ad un uso domestico: un vero maggiordomo al silicio, pronto a rispondere agli ordini del padrone umano.

"Stiamo studiando in quale modo i robot possano amalgamarsi nella società moderna", dice Hara: "Perché questo avvenga, le macchine devono saper conversare, prendere oggetti ed eseguire comandi". Tutti compiti che, naturalmente, Promet riesce ad eseguire perfettamente attraverso l'uso di un software particolarmente avanzato per la sintesi ed il riconoscimento vocale.

Gli oltre 24 sensori e servomotori equipaggiati su Promet, gestiti da un sistema operativo "intelligente", gli permettono di simulare quasi tutti i movimenti umani e di seguire comandi vocali complessi: in alcuni
video dimostrativi, ad esempio, il robot riesce ad assemblare un mobile e rialzarsi da posizione supina.

Qualcuno potrà pensare che Promet assomigli in modo insolito ai robot della serie televisiva Patlabor. Non è un caso: il design della macchina è stato affidato a Yutaka Izubuchi, ideatore dei protagonisti robotici di questo popolarissimo cartone animato giapponese.

L'estremo Oriente, sotto la leadership del Giappone, sta diventando il più importante
polo globale dell'innovazione robotica. Molte grandi aziende del Sol Levante, come ad esempio Honda ed Hitachi, investono da tempo ingenti risorse nella ricerca scientifica sull'automazione.

Il governo nipponico interviene a sostegno di tutte queste iniziative, motivato dalla crisi demografica del paese: entro 50 anni, la popolazione del Giappone sarà talmente invecchiata che dovrà contare sull'aiuto di assistenti robotici.

Fonte: Punto Informatico

24 febbraio 2006

Creata una prostata da cellule staminali umane

Ricercatori australiani della Monash University hanno fatto crescere in laboratorio una prostata umana da cellule staminali embrionali. In uno studio pubblicato sulla rivista Nature Methods, i ricercatori spiegano che le staminali hanno dato vita a tessuto equivalente a quello di un giovane essere umano. Il processo ha richiesto 12 settimane.

Questo risultato consentirà ai ricercatori di monitorare per la prima volta le varie fasi di sviluppo delle malattie prostatiche, in particolare dell'ipertrofia prostatica benigna e del cancro. La prima malattia, ad esempio, riguarda il 90 per cento dei maschi che raggiungono gli 80 anni di età e ha un pessimo effetto sulla qualità della vita pur non essendo una malattia mortale.

"Fino a oggi - spiegano i ricercatori - abbiamo avuto a disposizione ben poche prostate giovani da studiare. Adesso abbiamo la possibilità di coprire questo gap. Il tessuto che abbiamo cresciuto è un terreno perfetto per testare l'impatto degli ormoni e dei fattori ambientali sullo sviluppo delle malattie".

Il tessuto è stato fatto crescere insegnando alle cellule staminali a diventare una ghiandola prostatica umana. Impiantate in topi, si sono trasformate in una prostata che secerne ormoni e PSA, le sostanze usate per identificare le malattie prostatiche.

Fonte: Città della Scienza

16 febbraio 2006

Fidanzati uniti da un microchip sottopelle

Il piccolo dispositivo elettronico consente loro di aprire le porte dei rispettivi appartamenti. «La nostra è una grande prova d'amore»

WASHINGTON (Stati Uniti) - Come dono d'amore si sono scambiati un chip da inserire sotto la pelle del polso. Il chip apre automaticamente la porta dei rispettivi appartamenti.

La trovata di Jennifer Tomblin, che vive in Canada, e del suo fidanzato Amal Graafstra, che vive negli Usa, non è per tutti. Lui è un pioniere nel campo delle ricerche dei chip da «indossare» sotto la pelle. La coppia ha dotato i rispettivi appartamenti di lettori in grado di aprire la porta con una passata del polso, contenente il microchip, a distanza ravvicinata.

«Il mio interesse è nato dopo la scoperta che potevo fare a meno delle chiavi», ha spiegato il pioniere che usa il suo microchip, programmabile via software, anche per entrare nell'auto o per avere accesso al suo computer.

La fidanzata Jennifer, che ha 23 anni, ha detto ad Amal, che ha 29 anni, che desiderava anche lei farsi installare un analogo microchip nel polso. La coppia adesso ha accesso alle rispettive abitazioni, vetture e computer con un semplice movimento del braccio. «È una grande prova d'amore», affermano.

Fonte: Corriere della Sera

06 febbraio 2006

Il sogno dello scienziato russo "Un Pleistocene Park in Siberia"

Nelle steppe siberiane Sergey Zimov conta di far rivivere il mammut. Tra due anni il Dna dell'animale sarà completato. In un'area 16.000 chilometri quadrati, che fa parte della Yukutia, anche il bue muschiato, il lupi, l'alci, l'uro.

PER tre milioni e mezzo di anni i mammut hanno vagato tra le steppe del nostro pianeta. Alti più di tre metri e pesanti anche sette tonnellate avevano una imponenza tale che pochi predatori tentavano di aggredirli. Ma la loro fortuna iniziò a diminuire circa 20.000 anni fa, quando l'uomo dapprima nelle pianure eurasiatiche poi in quelle del Nord America iniziò a cacciarli. Per il regale Elephantidae fu l'inizio della fine, e circa 11.000 anni or sono si estinse del tutto.

Ma se le cose andranno come vogliono alcuni ricercatori non è escluso che i mammut ritornino a vivere nelle steppe della Siberia, in una sorta di "Jurassic Park" che ricostruirà il mondo del Pleistocene. Recentemente lo zoologo Alerei Tikhonov dell'accademia delle Scienze russe e Ross MacPhee del Museo americano di Scienze naturali hanno annunciato sulla rivista Science di aver ricostruito 13 milioni di basi che compongono il Dna estratto dalle ossa di un mammut ritrovato nel permafrost della Siberia e che morì circa 28.000 anni fa. In altre parole, sono riusciti a ricostruire circa la metà del Dna dell'animale estinto e sperano di poterlo avere interamente tra le mani entro un anno o due.

La possibilità di ridare vita a questo animale non è impossibile in quanto il suo patrimonio genetico è molto vicino a quello dell'elefante asiatico e si potrebbe utilizzare quest'ultimo come madre per il mammut. "Riportare in vita un animale del genere significa riportare nel nostro mondo il più grande simbolo dell'era pleistocenica", ha detto Larry Agenbroad, un esperto di mammut dell'Università del Nord Arizona.

A dire il vero questo esperimento sarebbe solo un piccolo passo per far tornare sulla Terra grossi animali del passato, un processo che viene chiamato "rewilding". Ci sono altre equipe di ricercatori infatti, che stanno tentando di riportare sul nostro pianeta il bucardo, una capra spagnola scomparsa 5 anni fa e la tigre della Tasmania. In Irlanda c'è chi tenta di ridare vita a qualcuna delle oltre 9.000 specie di uccelli che si sono estinte negli ultimi secoli.

Ma senza dubbio il progetto più ambizioso è quello di Sergey Zimov, uno scienziato russo, il quale sta tentando di trasformare una vasta area della Siberia, di oltre 16.000 chilometri quadrati e che fa parte della Yukutia, in uno spicchio del mondo com'era durante il Pleistocene. Egli infatti, sta ridando vita alle foreste com'erano un tempo e alla steppa di quel periodo. Al loro interno vuole poi introdurre il bue muschiato, il lupi, l'alci, l'uro e soprattutto il mammut non appena lo si potrà clonare. Zimov chiama già quell'area "Pleistocene Park".

Nei confronti di questa iniziativa si sono già levate alcune critiche. E' certo che un simile ambiente sia in grado di dare sostentamento a tali animali senza che venga alterato in modo distruttivo? Si è certi che il possibile avvento del mammut non porti con sé virus o malattie mortali per altri animali con conseguenze inarrestabili? Zimov si dice sicuro che ciò non accadrà, perché il mondo del Pleistocene è stato distrutto dall'uomo e non dalla natura che altrimenti l'avrebbe conservato.

Fonte: Repubblica

Il pesciolino diventò «matusalemme»

Allungata del 30 percento la vita del «Nothobranchius furzeri», con una molecola presente in molti vegetali.

Allungata del 30 per cento la vita di un pesciolino «Nothobranchius furzeri» con il resveratrolo, una molecola presente in oltre 72 vegetali, da tempo all'attenzione dei ricercatori, ultimamente anche per sue possibili azioni antivirali . Lo studio, in questo caso, è stato eseguito in Italia, da Alessandro Cellerino della Scuola Normale Superiore di Pisa in collaborazione con Antonino Cattaneo, vicedirettore dell'istituto europeo di ricerca sul cervello (EBRI) di Roma. La pubblicazione, sulla rivista «Current Biology», dimostrerebbe per la prima volta effetti anti-età del resveratrolo su animali vertebrati. Il pesciolino , ha spiegato Cellerino, sarà alla base di test farmacologici rapidi per scoprire effetti anti-età di nuove molecole. Negli esperimenti il resveratrolo non solo ha allungato del 30% la sua vita, ma ne ha ritardato la riduzione della forza muscolare e della velocità di apprendimento.

Fonte: Corriere della Sera

Vuoi essere immortale? Comincia a ibernarti

La trovata di Alan Sinclair, ex uomo di affari inglese: ha creato un centro dove congelare i corpi in attesa di una «resurrezione»

EASTBOURNE (USA) - L'ultima trovata per alimentare la speranza di chi non accetta la morte e di chi crede che prima o poi l'umanità scoprirà i segreti dell'immortalità si chiama industria di ibernazione: centinaia di cittadini americani e più di sessanta inglesi hanno già sottoscritto un contratto che stabilisce che una volta morti, i loro corpi saranno ibernati per centinaia di anni finché la scienza medica non avrà scoperto come «resuscitare» le persone.

PROCESSO - Il processo, chiamato anche «crionico», avrà come sede Eastbourne negli Usa e tutti coloro che hanno sottoscritto il contratto, una volta morti, saranno trasferiti nel centro d'ibernazione creato nella città statunitense da un ex uomo d'affari inglese, Alan Sinclair, che ha speso più di 600.000 euro per creare questo centro.

CORPI - I corpi delle persone saranno lavati e curati prima di essere sottoposti al procedimento. I futuri ibernati sperano che grazie ai processi scientifici sarà possibile, un giorno, ridare la vita a un corpo morto. Il fine dell'ibernazione è evitare che il corpo si decomponga. L'operazione costa quasi 150 mila euro e naturalmente non vi è alcuna garanzia di successo. Ma la promessa è allettante tanto che alcune pesone oltre a farsi ibernare aprono un conto a favore del centro di Eastbourne che, secondo contratto, sarà restituito una volta che la persona è «resuscitata».

CRITICHE - «Alcune persone criticano ciò che facciamo da un punto di vista religioso - dice il promotore dell'iniziativa, Alain Sinclair -. Ma io rispondo che noi stiamo dando una mano alla scienza ridefinendo cosa è un uomo». Una volta che la morte è accertata, nel corpo della persona è iniettata un fluido, il glicerolo. A quel punto il corpo sarà trasferito nel centro di Eastbourne e lo s'immergerà in una vasca d'acqua ghiacciata. Il cadavere successivamente sarà avvolto completamente in del politene, sarà sommerso nell'alcool e infine piazzato tra 120 kg di ghiaccio in un box a sua volta ghiacciato.

SCIENZA - La scienza contemporanea non assicura che l'ibernazione mantenga inalterato il corpo umano. Ma la tentazione dell'immortalità è forte, tanto che il primo uomo nella storia a farsi ibernare fu un professore californiano nel lontano 1967. Oggi, riferisce il centro d'ibernazione, tra coloro che hanno sottoscritto un contratto del genere ci sono professori universitari, scrittori e addirittura un vicario, anche quest'ultimo sedotto dalla speranza dell'immortalità. Naturalmente quella del corpo: l'immortalità dell'anima gliela può offrire soltanto Dio.

Fonte: Corriere della Sera

alla fine dell'articolo si fa riferimento a dio, beh, il vicario scoprirà prima o poi che non c'è nessun dio :-).

02 febbraio 2006

Esempio di Meditazione



01 febbraio 2006

Leggi il Dna e scopri il cancro

Nasce una scienza per identificare i fattori killer. Umberto Veronesi spiega come l'oncogenetica ci salverà la vita.

Un amico mi ha chiesto quali sono i due eventi più importanti che ho registrato finora nella mia vita. Ci ho pensato appena un attimo, e ho risposto: "I viaggi spaziali, con l'evento memorabile dello sbarco sulla Luna, e la scoperta della struttura del Dna, che ha dato luogo alla mappatura del genoma". Dopo quella mia risposta, ci siamo inoltrati in una di quelle affascinanti discussioni in cui i ragionamenti si rincorrono e ognuno vuole parlare per primo. È un retaggio del pensiero tumultuoso dell'adolescenza, e ogni tanto faccio notare agli amici che lo condividono con me, quanto siamo stati fortunati a mantenere questa voglia di discutere, di accalorarci e di sognare.

Naturalmente, quella volta la questione ci ha impegnati a fondo, con tanto di polemiche. Il mio interlocutore mi faceva notare con una certa ironia che entrambe quelle "grandi conquiste" hanno dato finora risultati abbastanza limitati rispetto alle grandi fatiche e alle enormi somme che sono costate. "Vero", gli ho risposto: "Ma sono due eventi che hanno cambiato tutto quello che c'era prima, e chissà dove ci porteranno".

Così, se i viaggi spaziali mi fanno sognare quando d'estate guardo il cielo pieno di stelle, la mappatura del genoma mi mette di fronte ogni giorno, nel mio lavoro scientifico e di medico, a progressive illuminazioni di una materia che prima era rimasta oscura, e ad avanzamenti lenti ma sicuri, il metodico passo dopo passo che è proprio della mentalità scientifica.

Come medico che ha passato tutta la sua vita professionale a lottare contro i tumori, penso che proprio la genetica costituisca l'evento di svolta che ci permetterà infine di vincere la battaglia. Non solo gli addetti ai lavori, ma l'intera collettività può constatare che le ricadute della post-genomica diventano di giorno in giorno più numerose. Per quanto riguarda il cancro, proprio la ricerca biomolecolare resa possibile dalla genetica sta chiarendo la relazione causale tra l'insorgenza di un tumore e l'esistenza di alterazioni genetiche.

Che cosa significa questo, e quale importanza riveste? Fermo restando che il cancro può essere causato da una moltitudine di fattori, in alcuni casi (un numero abbastanza piccolo: tra il 4 e il 10 per cento del totale) la relazione causale tra l'insorgenza di un tumore e l'esistenza di alterazioni genetiche che giocano come fattori predisponenti è ormai ben stabilita, e ci può permettere d'individuare i soggetti a rischio.

I ricercatori di oncogenetica (la genetica applicata all'oncologia) possiedono già una lista di geni le cui anomalie costituiscono la predisposizione a vari tipi di tumori, a volte molto rari, altre volte abbastanza frequenti come quello del seno e del colon. Questa conoscenza offre la possibilità d'identificare i soggetti a rischio a partire dal loro statuto genetico. Si tratta di un grande vantaggio, perché se si ha una storia familiare di tumori ricorrenti, un'indagine genetica potrà permettere di capire se si ha la predisposizione a sviluppare un tumore. In questo caso, non bisogna però temere di 'medicalizzarsi' la vita, né bisogna commettere l'errore di pensare che una semplice predisposizione debba dare giocoforza luogo a un tumore. Semplicemente, un intelligente programma di controlli permetterà di monitorare lo stato di salute, e d'intervenire in modo più che tempestivo nel caso che il tumore si manifesti. Come ormai tutti sanno, un intervento in fase precocissima è praticamente risolutivo, e porta alla guarigione.

Gli esperti di bioetica, a proposito dei test che dimostrano la predisposizione (detti anche test predittivi) si sono interrogati sulla liceità o meno di praticarli. A mio giudizio, il problema esiste solo se non s'instaura un giusto rapporto tra medico e paziente, e comunque tutta la problematica può dirsi riassorbita nella tematica più ampia del consenso informato: nessun test predittivo deve essere praticato se prima il medico non avrà spiegato al paziente qual è il suo valore probatorio (l'indicazione di una predisposizione non lo condanna a sviluppare una malattia certa) e se non si sarà accertato che il paziente abbia capito, e sia d'accordo di sottoporsi all'indagine genetica. Non è nemmeno il caso di ricordare che su tutta questa materia deve esistere il più completo e ferreo segreto professionale, perché è intuibile quali danni verrebbero al paziente se lo si sapesse portatore di un rischio aumentato.

La genetica applicata ai tumori incomincia già ad avere una grande importanza terapeutica quando si tratta di curare i malati. L'analisi genetica del tumore sta cominciando infatti a consentire una diagnosi più raffinata, e ci permette di prevedere la riuscita delle terapie. Per esempio, se sappiamo che a causa di una mutazione genetica un certo tipo di tumore risponde male a una terapia, possiamo fin dall'inizio affrontarlo con sistemi più adeguati e più efficaci. Fino a arrivare - e io credo che questa svolta sia vicina - a una terapia personalizzata, vale a dire pensata su misura per il profilo genetico del tumore da curare. All'Istituto Europeo di Oncologia, di cui sono il direttore scientifico, tutti noi seguiamo con grande interesse le ricerche del professor Pier Giuseppe Pelicci, che qualche anno fa è balzato alla ribalta della cronaca per la scoperta del gene dell'invecchiamento (l'eliminazione di questo gene in un gruppo di topi allunga la vita degli animali del 35 per cento) e che nel 1998 ha ottenuto un premio prestigioso per aver identificato l'oncogene PML/Raralfa della leucemia acuta promielocitica, indicando per questo tipo di leucemia una terapia differenziativa con acido retinoico. Lo stesso gruppo di Milano guidato dal professor Pelicci ha scoperto che nel nostro patrimonio genetico, scritto nel Dna, si formano delle proteine difettose, dette oncoproteine, capaci di attirare sui geni delle proteine enzimatiche (chiamate enzimi guastatori) che inserendo un metile (CH3) scompaginano i geni regolatori, per cui la cellula comincia a moltiplicarsi come una cellula indifferenziata, dando luogo al tumore. Questa scoperta è fondamentale perché siamo arrivati a capire e vedere proprio l'origine del tumore, lì dove comincia a nascere.

Tutte queste scoperte sono lo sviluppo attuale della ricerca biomolecolare, che negli ultimi vent'anni ha acceso le prime luci sulle origini genetiche del cancro. Grazie alla conoscenza del genoma umano si moltiplicano le terapie mirate, in grado d'intervenire sui geni coinvolti nel processo tumorale, senza danneggiare la cellula. Di qui la nascita di una generazione di farmaci meno tossici, a volte meno potenti ma più selettivi, che aiutano a portare avanti una strategia nuova: come per l'Aids, la nuova strada che la medicina sta tracciando è quella di rendere il cancro - quando non è possibile guarirlo - una malattia cronica per la quale ci si cura tutta la vita, come per il diabete o l'ipertensione. Convertire la malattia mortale in una malattia cronica è una tappa culturalmente importante nel cammino verso il controllo della malattia.

Se i nuovi farmaci creati dalle conoscenze della genetica ci aiuteranno a progredire su questa strada, sarà anche una svolta importante a livello psicologico e sociale, perché l'intero capitolo del cancro perderebbe la sua congenita angoscia. Se si diffonde l'idea che il cancro può essere sì sconfitto, ma che in alternativa può anche essere tollerato per anni, allora la sua diagnosi diventa meno sconvolgente, e i pazienti possono affrontare le cure pragmaticamente, con più fiducia.

Se questa è la fotografia attuale, che io considero molto incoraggiante e assai più piena di speranza rispetto alla situazione anche di un solo decennio fa, penso anche che i prossimi anni e i prossimi decenni costituiranno per la cura del cancro e di molte altre malattie una vera svolta nella storia della Medicina. Quando si potrà arrivare alla terapia genica, che permetterà di sostituire i geni malati, l'intero modo di curare cambierà radicalmente.

Accanto a questa prospettiva che non credo miracolistica, ma assolutamente e razionalmente probabile, un altro grande aiuto verrà dagli studi sulle cellule staminali e sulla clonazione terapeutica delle cellule. Dall'epoca in cui il monaco agostiniano Gregor Mendel (nato nel 1822, morto nel 1884) dimostrò l'ereditarietà dei caratteri e mise le basi della genetica, è stata fatta una lunga strada, che ha portato per l'umanità grandi benefici. Ora dobbiamo guardare avanti, perché una metà del cammino è ancora da percorrere. Ed è un'avventura tutta da vivere.

Fonte: L'Espresso

Il motore perfettamente ecologico in una molecola

Come molti nobili, ha un doppio nome: «rotaxano» nel linguaggio specialistico dei chimici, Sunny per gli amici. È un nuovo motore con due caratteristiche: è del tutto ecologico, perché non produce scorie; agisce a scale piuttosto piccole, quelle dei nanometri (un miliardesimo di metro) in un processo interamente controllato dall’uomo. Ha la forma di una ciambella con un diametro di 1,3 nanometri che scende e sale ciclicamente lungo un asse lungo 6 nanometri, fermandosi solo a quattro stazioni. Il movimento è reversibile, sincronizzato e piuttosto veloce: andata e ritorno in un millesimo di secondo. Ovvero, 60.000 cicli in un minuto.

L’uomo che ha diretto l’équipe che lo ha messo a punto, Vincenzo Balzani - uno dei 50 chimici più citati al mondo, l’unico italiano nella classifica dei primi 100 - ne è molto orgoglioso. Non solo perché è una macchina molecolare frutto di oltre sei anni di intenso lavoro. Non solo perché è piuttosto veloce: compie 60.000 cicli in un minuto. Ma soprattutto perché è un motore integralmente ecologico: consuma solo energia solare e non produce scorie di sorta.

Finora di queste macchine molecolari a energia solare ne era stata messa a punto una sola, presso l’università di Groningen in Olanda. Ma era piuttosto lenta: per completare un ciclo impiegava un’ora. Sunny è tre milioni e seicentomila volte più veloce. È anche per questo che l’articolo con cui Vincenzo Balzani e i suoi collaboratori viene pubblicato domani in bella evidenza sulla rivista dell’Accademia nazionale delle scienze degli Stati Uniti (Pnas).

Si tratta di un lavoro estremamente elegante di chimica di base. Progettato a Bologna, presso il Dipartimento di Chimica dell’università felsinea da Vincenzo Balzani e da due suoi collaboratori: Alberto Credi e Margherita Venturi. Progettare una molecola, anzi una grossa molecola, e prevederne la struttura tridimensionale non è impresa facile. Ma Vincenzo Balzani è noto in tutto il mondo per essere uno dei più maggiori esperti di questa particolare branca della chimica, chiamata «chimica supramolecolare». Anche realizzare il progetto non è semplice: ci sono riusciti J. Fraser Stoddart e tre suoi collaboratori esperti di nanostrutture presso l’università di California a Los Angeles.
Una volta messa a punto, sulle sponde del Pacifico, la supramolecola è tornata a Bologna, dove Balzani e i suoi sono riusciti ad accendere il motore molecolare e a farlo funzionare. Con un combinato disposto di sette performance rendono davvero unico il rotaxano: funziona con la luce visibile (energia solare); ha un comportamento autonomo (come quei particolari motori che sono le proteine); non produce rifiuti; si fonda su un processo intramolecolare, che in principio può essere svolto da una singola molecola; funziona alla velocità di 1.000 cicli al secondo; funziona in un ambiente non estremo (in soluzione, a temperatura ambiente); è stabile per oltre 1.000 cicli.

Insomma, se un giorno si potrà costruire un sistema macroscopico fondato sul rotaxano giungeremmo molto vicini a un motore ecologico perfetto. Naturalmente non sappiamo se e quando questo nanomotore diventerà un motore e se e quando questo motore potrà essere commercializzato. Tuttavia il lavoro di Vincenzo Balzani e del suo gruppo italo-americano conferma che le nanotecnologie, le tecnologie sviluppate alla dimensione in cui iniziano a diventare rilevanti i fenomeni quantistici, sono un settore davvero promettente. Anche da un punto di vista applicativo. La ricerca dimostra anche che in Italia abbiamo ottime competenze in questo settore.

Peccato che le ricerche di Vincenzo Balzani e del suo gruppo non siano rientrati tra i 47 progetti di chimica finanziati dal Ministero dell’Università e della Ricerca diretto da Letizia Moratti. Evidentemente il fatto che queste ricerche siano state proposte da uno dei 50 chimici più citati al mondo (unico italiano tra i primi cento), che si sviluppino in un settore di punta della ricerca fondamentale e applicata, che i risultati vengano giudicati di primaria importanza da riviste internazionali di grande prestigio, come "Pnas" e "Science", non conta nulla.

Fonte: L'Unità