31 gennaio 2006

Una formula spiegherà le nostre differenze

Sarà la scienza che fu di Euclide a decifrare e descrivere le infinte variazioni tra persona e persona

Le differenze tra gli uomini? Sarà la matematica a scoprirle, codificando in formule i segreti dei geni. Ma per svelare le ripercussioni di una mutazione e capire come l'organismo si riorganizza, serve una «nuova» matematica. Questa la conclusione di «Models and methods for human genomics», conferenza organizzata dalla Federazione Italiana di Matematica Applicata (Fima) a Champoluc (Aosta), per mettere intorno a un unico tavolo scienziati dei numeri, informatici, medici e biologi. «La nuova matematica deve avere la capacità di studiare i sistemi viventi, molto dinamici e in grado di autorganizzarsi, e concetti tradizionali non sono in grado di trasformare in modelli teorici — spiega Roberto Tadei, presidente Fima —. Le leggi classiche non bastano più: gli stessi matematici devono mettersi in discussione e trovare nuovi paradigmi». Diverse ricerche degli ultimi anni sono già espressione di questa esigenza.

Per esempio partendo dallo studio dei fenomeni a livello genomico, è stato sviluppato un modello matematico che descrive e simula il comportamento delle cellule. Un altro modello è stato formulato per individuare e visualizzare la struttura tridimensionale delle proteine: una scoperta importante perché è proprio la struttura tridimensionale delle proteine a determinarne la funzione. Alla conferenza di Champoluc è stato presentato un inedito approccio bioinformatico che consente innanzitutto di analizzare quello 0,2% di genoma umano che differenzia un individuo da un altro, e poi di confrontare dati genomici con dati clinico-patologici di pazienti colpiti da un tumore, fornendo così nuovi metodi di prognosi.

«Servono strumenti, cioè modelli matematici, per l'interpretazione teorica dei fenomeni che si possono studiare a livello del Dna — precisa Tadei — ma anche algoritmi e metodi di calcolo: per questo alla matematica è necessario affiancare bioinformatica e statistica». Negli ultimi anni la scienza biologica unita alla scienza dei computer ha permesso di analizzare le sequenze dei geni e delle proteine ed anche di iniziare a gestire questi dati: gli sforzi si sono concentrati finora sul «cosa c'è» e adesso si vuole comprendere il «come funziona». Intenti che richiedono un'alleanza tra le diverse discipline e che saranno espressi nella Carta di Champoluc, il documento che la Fima sta preparando. «Questa collaborazione interdisciplinare è sempre più sentita — conclude Tadei — e sta portando alla nascita di istituti interdisciplinari ma anche allo sviluppo di parchi scientifici e biotecnologici come il Bioindustry Park Canavese in Piemonte, per poter, un domani, trasferire le nuove conoscenze a imprese d'avanguardia nel settore biotecnologico».

Fonte: Corriere della Sera

Scoperto da un italiano in Usa il fattore scatenante dei tumori

Carlo Croce della Ohio University ha individuato nei microRna i responsabili delle neoplasie al seno, ai polmoni e alla prostata.

ROMA - La scoperta di uno scienziato italiano che lavora negli Stati Uniti aprirà nuove strade nella lotta contro alcuni tra i tumori più diffusi. Carlo Croce, dell'università dell'Ohio aveva individuato in studi precedenti un fattore capace di scatenare diverse forme dei tumori solidi più comuni, come quelli di seno, polmoni e prostata. Nello studio - finanziato anche dal ministero della Salute e da quello dell'Istruzione, Università e Ricerca, e pubblicato sulla rivista dell'Accademia Americana delle Scienze, PNAS - Croce dimostra quale ruolo abbiano nella formazione dei tumori i frammenti di materiale genetico.

Da tempo Croce studia un ristretto gruppo di semplicissime molecole, frammenti di materiale genetico, appunto, chiamati microRna, che hanno un ruolo di primo piano nel funzionamento dei geni. Ora lo studioso italiano ha fornito le prove che i microRna sono alla base dei tumori più diffusi e di molte altre neoplasie, finora ritenute fondate per lo più su meccanismi molecolari distinti.

La ricerca mostra che una ventina di microRna si ritrovano costantemente coinvolti in sei tipi di tumori solidi. Croce è stato il primo scienziato capace di intravedere in questa famiglia di molecole, considerate solo fino a pochi anni fa inutili per le cellule, un ruolo chiave nel cancro.

L'ultimo studio è stato condotto su 540 campioni e ha dimostrato che molti tumori apparentemente molto diversi condividono dei meccanismi di sviluppo comuni, fondati appunto sull'azione dei microRna. Questi ultimi sono frammenti di materiale genetico lunghi 22 nucleotidi (i mattoncini di base di cui si compone il materiale genetico) o poco più, piccolissimi rispetto per esempio alla lunghezza di un gene, che può essere fino a migliaia di volte più lungo.

Insieme a Stefano Volinia e George Calin, entrambi dell'università dell'Ohio, Croce ha raccolto 540 biopsie di tumori di seno, stomaco, pancreas, polmoni, prostata e colon ed eseguito studi sul livello di attività dei microRna in questi tessuti, confrontando questi risultati con quelli relativi a tessuti sani prelevati dagli stessi organi.

I risultati non lasciano spazio a dubbi: 137 differenti microRNA sono espressi (ovvero prodotti dai geni corrispondenti) in almeno la metà dei tumori considerati e, di questi, 43 si comportano in maniera tale da consentire agli scienziati di distinguere tra tessuti normali e tessuti maligni. Dei 43 microRNA, inoltre, circa 21 non funzionano a dovere in almeno tre delle neoplasie considerate e l'alterata attività di alcuni di loro è comune a sei differenti tumori. Gli scienziati hanno definito questo gruppetto di miRNA la 'firma molecolare' dei tumori solidi.

Gli scienziati hanno anche scoperto alcuni geni bersaglio dei microRNA, fra i quali hanno individuato geni direttamente coinvolti nella comparsa dei tumori, come quello del retinoblastoma-1 (RB1). La scoperta di questo marchio molecolare comune a più tumori è importante, ha detto Croce, perché mostra come molte forme di cancro condividano gli stessi processi genetici. Stringere il cerchio intorno ai più attivi di questi microRNA, ha aggiunto lo scienziato italiano, fornisce una guida per orientarsi nella ricerca futura.

"Sappiamo che ci sono centinaia di micro RNA - ha osservato Croce - e che alcuni di essi possono avere diversi geni bersaglio. Trovare quelli che compaiono sempre in diversi tipi di cancro aiuterà a progettare nuovi e migliori interventi".

Secondo gli studiosi il ruolo dei microRNA nel cancro può avere varie sfaccettature: queste molecole, come gli oncogeni, potrebbero promuoverne la crescita, oppure la loro presenza, come fossero geni oncosoppresori, potrebbe essere determinante per prevenire il tumore. Inoltre, ha rilevato Croce, potrebbe essere che lo stesso microRNA sia troppo abbondante in un tumore e carente in un altro, ovvero che lo stesso microRNA abbia un ruolo diverso di tumore in tumore.

"E' una nuova genetica del cancro - sottolinea Croce - che ci fornisce più opportunità di diagnosi, prognosi e terapia". Secondo Croce gli stessi microRNA potrebbero essere usati un giorno come trattamenti: se si potessero sostituire microRNA persi in alcuni tipi di cancro o eliminare quelli in eccesso in altri, forse si potrebbero prevenire i primi passaggi che promuovono lo sviluppo di una neoplasia.

Fonte: Repubblica

30 gennaio 2006

Intel produce un chip con transistor più piccoli di un globulo rosso

Intel ha annunciato di avere prodotto un microchip usando per la prima volta al mondo nuovi metodi di fabbricazione di dimensioni ridotte, che porteranno la società a mettere in commercio microprocessori più potenti ed efficienti.

Nel chip di memoria del formato di un'unghia è inciso un miliardo di transistor, larghi soltanto 45 nanometri, circa 1.000 volte più piccoli di una cellula del sangue, ha detto Mark Bohr, capo-ingegnere a Intel.

Il chip "conterrà il doppio dei transistor per unità d'area e userà meno energia. Aiuterà i prodotti e le piattaforme del future ad avere migliori performance", ha detto in un'intervista a Reuters.

Intel, che produce oltre l'80% dei processori montati su personal computer, si prepara a fabbricare chip con la nuova tecnologia nella seconda metà del 2007, ha detto Bohr.

La società di Santa Clara, in California, ha iniziato lo scorso anno a fare chip con tecnologia a 65 nanometri, che è quella ora dominante nell'industria dei semiconduttori.

Intel non ha voluto dire quanto ha speso nello sviluppare un processo di produzione a 45 nanometri, ma la società sta pompando miliardi di dollari all'anno in ricerca per mantenere la leadership nel settore di fronte alla concorrenza.

Fonte: Città della Scienza

29 gennaio 2006

Meditare rafforza il cervello ecco i segreti della mente

Ricerca Usa: ecco come l'area cerebrale diventa più grande. Normalmente queste zone tendono a ridursi con l'età.

Esercizio utile anche contro lo stress. Le onde gamma fanno invecchiare meglio e riducono il rischio di malattie.

ROMA - Meditare fa bene al cervello e aumenta le capacità intellettive. Sono tante le definizioni di meditazione, perché diverse sono le meditazioni, ma una cosa che le accomuna c'è, ed è arrivata dalla ricerca scientifica. L'ha scoperta un gruppo di ricercatori della Harvard Medical School di Yale e del Massachusetts Institute of Technology. La gente che medita vede crescere il proprio cervello, un fenomeno che non succede a chi non medita. Ma c'è di più.

Scannerizzando il cervello i ricercatori hanno osservato che le parti che aumentano in spessore sono quelle addette all'attenzione e ai processi sensoriali che arrivano dall'esterno. All'interno della materia grigia poi, lo spessore aumenta maggiormente nelle persone adulte rispetto a quelle più giovani. Questo è davvero interessante, sostengono i ricercatori, perché di solito questa sezione del cervello umano normalmente rimpicciolisce con l'età. In altre parole è come se nelle persone anziane la meditazione fosse in grado di far tornare attive quelle parti del cervello che lo sono soprattutto in tenera età.

Spiega Sara Lazar, responsabile della ricerca: "I nostri dati portano a sostenere che la pratica della meditazione conferisce non solo l'aumento della materia grigia, ma anche elasticità alla corteccia cerebrale degli adulti in aree importanti per l'apprendimento, i processi emotivi e lo per star bene". Secondo i ricercatori questa scoperta si conforma ad altre ricerche che avrebbero dimostrato che la meditazione ispessisce le aree del cervello di chi pratica musica, di chi impara molte lingue.

Ma come si è giunti a queste conclusioni? I ricercatori hanno scannerizzato il cervello di 20 persone - alcune delle quali che facevano meditazione da vari decenni altre da un solo anno - e lo hanno confrontato con 15 che non l'avevano mai praticata. Per misurare il livello di meditazione che i partecipanti erano in grado di raggiungere veniva chiesto loro, durante la scannerizzazione del cervello, di provare a meditare solo su ciò che gli capitava attorno ad essi durante le analisi, senza utilizzare particolari metodi di mantra ossia senza usare quei suoni che emessi, secondo la meditazione buddista, sono in grado di liberare la mente dai pensieri. Spiega Lazar: "Se i partecipanti all'esperimento sentivano un rumore essi dovevano ascoltarlo, piuttosto che pensare ad esso. Se non succedeva nulla, dovevano porre attenzione al loro respiro. In altre parole essi non dovevano elaborare pensieri".

Questa fase di studio durava circa 40 minuti, durante i quali la profondità della meditazione veniva misurata attraverso il rallentamento del respiro. Alle persone invece, che non praticavano meditazione veniva chiesto di abbandonarsi ai loro pensieri come facevano quando si rilassavano.

Usando questa base comune la ricerca ha concluso che l'aumento della materia grigia per chi fa meditazione va dagli 8 ai 16 millesimi di centimetro, in rapporto a quanto tempo trascorre durante la sua vita a meditare. "Questo dimostra che l'aumento di materia grigia non dipende unicamente dalla meditazione in sé, ma anche da quanto tempo si trascorre in meditazione e quanto è profonda", ha sottolineato Lazar. Questi risultati tuttavia, sono solo il punto di partenza della ricerca. "Perché in chi medita il cervello aumenta di volume?

La meditazione produce una maggiore connessione tra le cellule o un maggiore afflusso di sangue al cervello? Il comportamento delle persone cambia? E soprattutto: con la meditazione si può rallentare l'invecchiamento? Queste sono solo alcune delle domande a cui ora vorremmo dare una risposta, ma per questo sono necessari molti esperimenti i tempi non saranno certo brevi".

Fonte: Repubblica

27 gennaio 2006

Micro-robot medici a spasso per il corpo

Con un diametro di 15 millimetri, i nuovi robottini made in USA rappresentano la nuova frontiera della chirurgia laparoscopica: per ora sono in grado di prelevare piccole sezioni di tessuto per biopsie.

Omaha (USA) - L'ultima invenzione della University of Nebraska sembra il frutto di certa cinematografia sci-fi, su tutti il mitico Viaggio allucinante di Richard Fleischer: il team di ricercatori statunitensi ha realizzato una serie di micro-robot medici radio controllati. I prototipi, con un diametro di circa 15 millimetri, sono in grado di muoversi liberamente all'interno della cavità addominale e, grazie ad un piccolo ago retrattile, prelevare piccole sezioni di tessuto per eventuali biopsie. Il controllo a distanza avviene grazie a una sorta di consolle con joystick.

Come riporta
New Scientist, per ora i piccoli robot sono stati testati su cavie animali di vario tipo, compresi i maiali. Grazie alle piccole unità motrici e una telecamera integrata, non solo hanno dimostrato di potersi destreggiare fra i vari organi interni, senza provocare alcun tipo di danno, ma hanno lasciato intuire che quali possano essere le nuove frontiere degli interventi in laparoscopia (la pagina di Wiki contiene immagini che possono risultare poco gradevoli).

"Gli interventi in laparoscopia vengono semplificati, e i pazienti possono godere di una fase post-operatoria decisamente meno traumatica. L'utilizzo di piccole incisioni, infatti, rende il recupero piuttosto veloce", ha dichiarato l'inventore dei robot, il dottor Dmitry Oleynikov.

La video-laparoscopia tradizionale, sebbene ormai piuttosto avanzata, dispone di un campo visivo decisamente più limitato; i robot, invece, possono essere posizionati in maniera più precisa e quindi trasmettere immagini più dettagliate. Dispongono, infatti, di due piccoli cilindri di alluminio con un asse centrale, dotato di cam. La superficie a spirale dei rulli permette la presa sui tessuti.

In un test su un maiale, i robot sono stati inseriti attraverso la bocca e, una volta all'interno dello stomaco, hanno realizzato un piccolo foro che ha permesso il passaggio alla cavità addominale. In futuro, secondo i ricercatori, potrà essere utilizzata la stessa tecnica con gli esseri umani, magari per una biopsia o interventi alla vescica. "Questi robot un giorno sostituiranno la chirurgia tradizionale, e forse le mani del chirurgo non avranno neanche più bisogno di entrare nel corpo. Spero che questo possa avvenire anche nella medicina di emergenza", ha dichiarato Oleynikov.

Intanto lo sviluppo continua e si profilano all'orizzonte nuovi modelli in grado di fermare le emorragie interne clampando, accelerando i processi di coagulazione e cauterizzando le ferite. "L'utilizzo dei robot in ambito chirurgico sembra ormai inevitabile, ma per ora sia le attrezzature che la formazione specifica sono piuttosto costose", ha confermato Christopher Eden, consulente urologo del
North Hampshire Hospital di Basingstoke. "In Gran Bretagna c'è molto scetticismo al riguardo. Dipendere dalle macchine che sono costose, si possono guastare e diventare obsolete: può essere un problema".

Durante il prossimo meeting della
Society of American Gastrointestinal and Endoscopic Surgeons, che si terrà a Dallas in primavera, Oleynikov illustrerà ai colleghi i risultati del suo progetto.

Nel 2004 l'
ARTS Lab della Scuola Superiore Sant'Anna di Napoli aveva realizzato qualcosa di simile, sebbene i prototipi si mostrassero decisamente più voluminosi (2 x 1 cm). Segno evidente che la chirurgia laparoscopica è veramente uno dei campi medici più disponibili alle innovazioni robotiche. Va detto che gli stessi studiosi avvertono: non tutti i campi della medicina potranno approfittare, a breve, dell'avvento di soluzioni di questo tipo.

Fonte: Punto Informatico

26 gennaio 2006

Giappone, al debutto un robot receptionist

Sempre più, i robot sostituirano l'essere umano nelle operazioni lavorative. Benissimo.

TOKYO (Reuters) - Avete bisogno di un momentaneo aiuto al banco della reception? Un'agenzia di collocamento giapponese suggerisce la soluzione: assumete un robot.

Per meno di 50.000 yen (350 euro) al mese, una frazione del costo di una sostituzione in carne ed ossa, l'agenzia PeopleStaff invierà Hello Kitty Robo, un receptionist capace di avvertire la presenza di un visitatore, di salutarlo e lanciarsi in una semplice conversazione.

L'agenzia con base a Nagoya offre anche i servirsi di Ifbot, un robot per anziani, che chiacchiera, fa indovinelli e pone problemi di matematica per allenare il cervello ed evitare la demenza senile. In ogni caso Ifbot sa anche informarsi sulle condizioni di salute dell'interlocutore.

Una portavoce di PeopleStaff ha detto che costerebbe oltre 300.000 yen al mese assumere una persona per questo tipo di lavoro, ma ha avvertito che i robot non sono capaci di eseguire tutte le mansioni richieste ad un umano.

Fonte: Reuters

24 gennaio 2006

Biomicrorobot per salvare la pelle

Sfere nanometriche tra le cellule navigano, curano e si dissolvono

Una crema intelligente, trasportata da un nanorobot, capace di eseguire un peeling profondo e di idratare la pelle con la giusta dose di emolliente. Così Robert Freitas, scienziato un po’ visionario e autore di uno dei primi libri sulle nanomacchine in medicina, si immagina il cosmebot del futuro, la nanomacchina cosmetica. Fantascienza, ma la scienza che sfrutta l’infinitamente piccolo, la nanotecnologia, è già presente nelle profumerie ed è attivissima nei laboratori di ricerca.

Il primo passo verso la miniaturizzazione dei cosmetici furono i liposomi, nati una quarantina di anni fa per veicolare idratanti e supercitati in tutte le réclame; poi sono arrivati i nanosomi, meno pubblicizzati finora, anche perché la nanocosmesi, e più in generale le nanotecnologie, hanno cominciato a sollevare qualche problema di sicurezza.

Una delle sfide più importanti per la scienza della bellezza è quella di superare la barriera naturale della pelle e arrivare in profondità dove i principi attivi possano agire: antiossidanti per ritardare l’invecchiamento, antirughe che spianino i segni dell’età, prodotti riparatori dei danni da troppe abbronzature. «Unastrada è quella dei nanosomi— spiega Roberto Leonardi, che insegna tecnologia cosmetica all’Università di Milano—microcapsule di lipidi, come la lecitina di soia, che per la loro composizione, simile ai lipidi epidermici, e per le loro dimensioni infinitesimali riescono a penetrare a fondo nell’epidermide fino al derma e a liberare i principi attivi che contengono». Le dimensioni infinitesimali significano grandezze pari a un miliardesimo di metro: questo è il campo delle nanotecnologie. Unnanosoma misura dai 100 ai 600 nanometri ed è 800 volte più piccolo di un capello. I principi attivi comprendono, al momento, sostanze come la vitamina A (o meglio, un suo derivato, il retinolo), che funziona come antinvecchiamento, la vitamina C che è antiossidante, la vitamina E, anch’essa antiossidante, che protegge la pelle e i capelli dall’inquinamento. In futuro potrebbe arrivare il Gaba o acido gamma-aminobutirrico, un composto antiansia che, invece di rilassare la mente, potrebbe servire a rilassare le rughe.

I nanosomi vengono, a loro volta, veicolati in creme e gel e sono studiati anche per la «cessione programmata»: sono capaci cioè di liberare principi attivi a diverse profondità, nella cute. Poi si disintegrano, trasformandosi in sostanze lipidiche che, in un primo tempo, può anche funzionare da barriera protettiva, poi viene distrutto dagli enzimi ed eliminato. I vantaggi dei nanosomi? Sono completamente biocompatibili e non provocano allergie; proteggono il loro contenuto dagli enzimi e quindi dalla degradazione, riducono l’azione irritante che alcuni prodotti possono avere sugli strati superficiali della cute.

«C’è poi la strada delle nanoemulsioni— aggiunge Leonardi — che sfrutta l’idea di disperdere in un mezzo, per esempio acquoso, particelle lipidiche piccolissime in modo che stiano in sospensione, non si aggreghino e siano, quindi, più facilmente assorbite ».Unesempio di miniaturizzazione è quello dei filtri solari trasparenti: le particelle di ossido di zinco o di titano, che formano una barriera contro i raggi ultravioletti, quando sono ridotti a dimensioni infinitesimali non bloccano la luce visibile con il risultato che le facce spalmate di crema non appaiono più come maschere bianche. Ma proprio da qui è partita la discussione sulla sicurezza: particelle così piccole non entrano poi nel circolo sanguigno e non rischiano di provocare danni nel tempo? Del resto, alcune sostanze possono modificare le loro caratteristiche chimiche e fisiche quando sono ridotte a dimensioni piccolissime ed è proprio questo uno dei concetti base per lo sfruttamento delle nanotecnologie. Alcune autorità sanitarie, come la Royal Society inglese e la Food and Drug Administration americana, hanno lanciato appelli perché si facciano più ricerche sulle sicurezza delle nanotecnologie e non soltanto in campo cosmetico. Le aziende produttrici assicurano che tutti i prodotti sono testati prima di entrare sul mercato e intanto studiano nuove soluzioni. Tinture per i capelli, ad esempio, o rossetti che danno l’effetto colore non perché contengono pigmenti, maperché giocano sulla rifrazione della luce: possono anche diventare iridescenti, come avviene alle ali delle farfalle o alle piume del pavone. Shampoo per combattere i capelli bianchi e cerotti anticalvizie. Persino nanopolveri all’argento che, grazie alle proprietà antibatteriche del metallo, funzionano contro l’acne , il «nemico» dei ragazzi: sono questi i nuovi «cosmaceutici », come sono stati battezzati con una fusione di parole, un po’ cosmetici, un po’ farmaci.

Fonte: Corriere della Sera

22 gennaio 2006

Staminali in regalo al neonato

E' la nuova moda in Inghilterra. Con 2 mila euro si regala al piccolo la conservazione del proprio cordone ombelicale per 25 anni

LONDRA - Portafotografie? Medagliette? Magari scarpine di maglia fatte in casa? Tutto «out». Il vero regalo «in» per i neonati inglese è un prezioso set di cellule staminali. Ci si potrebbe immainare anche una scritta del tipo: «Rompere la provetta di caso di necessità» , visto che lo scopo sarebbe quello di fornire il piccolo di uan riserva di cellule per le proprie necessità di salute future. A gestire il business sono le banche private per la conservazione del sangue prelevato dal cordone ombelicale, che stanno spuntando in tutta la Gran Bretagna. E gli affari, al ritmo di 200 kit al mese, vanno assai bene.Il sangue del cordone ombelicale e della placenta contiene cellule staminali simili a quelle contenute nel midollo osseo, dalle quali hanno origine i globuli rossi, i globuli bianchi e le piastrine. Pertanto tali cellule potrebbero avere servire per la cura di eventuali, gravi, malattie del sangue, in particolare leucemie, talassemie e linfomi. In futuro poi si ritiene che potranno essere utilizzate per ricostruire tessuti od organi malati, insomma veri e propri pezzi di ricambio per il corpo umano.

LA PROCEDURE - La procedura di prelievo è semplice: subito dopo la nascita il cordone ombelicale viene pinzato e reciso e con un ago viene prelevato dalla vena ombelicale il sangue rimasto nel cordone e nella placenta che contiene cellule staminali sufficienti per un trapianto in bambini e adulti fino a un peso di circa 50 chili. Il sangue arriva in una sacca sterile alla banca prescelta dove le cellule staminali vengono separate dal plasma, sottoposte ad un trattamento di congelamento e conservate per 25 anni. Le cellule staminali del cordone ombelicale possono essere impiegate, in caso di compatibilità, anche per trapianti a terzi, particolarmente a membri della stessa famiglia.

IN ITALIA - In Italia il procedimento non è possibile. O meglio, non è possibile gestire il cordone ombelicale in forma privata. E' però possibile, e vale sicuramente la pena farlo, donare «il cordone ombelicale» ad apposite banche pubbliche. In questo modo le cellule vengono classificate a seconda delle loro caratteristiche antigeniche e rimangono a disposizione di chiunque ne abbia bisogno in caso di necessità, qualora sia dimostrata la compatibilità, come avviene per i trapianti di midollo osseo. La prima Banca di sangue del cordone ombelicale italiana - Cordon Blood Bank - è stata fondata a Milano nel 1993. Nel 1995 è stato creato il Grace (Gruppo per la raccolta e Amplificazione delle Cellule Ematopoietiche), una rete internazionale che permette di trovare il donatore grazie a un archivio informatico collegato con i registri di donatori di midollo o di sangue placentare di tutto il mondo. Attualmente sono attive in Italia ben 14 «banche del cordone». Nella sola banca di Milano, che ha sede presso l’Ospedale Maggiore, sono conservate oltre 5mila unità di sangue placentare. Di queste oltre 200 sono state già usate per curare pazienti affetti da varie forme di leucemia. Per avere informazioni su come donare le cellule del cordone ombelicale ci si può rivolgere all'Associazione donatrici di cordone ombelicale

Fonte: Corriere della Sera

20 gennaio 2006

Polizia? Bastano i robopoliziotti

Dal 2011 la Corea del Sud inizierà a sperimentare l'uso di automi nelle strade di città. Contribuiranno al mantenimento dell'ordine pubblico. Le autorità assicurano: niente paura, saranno teleguidati.

Seoul - Vedere un robot per la strada, in Corea del Sud, sarà presto all'ordine del giorno: già introdotti nelle aule scolastiche e nelle zone di frontiera, gli automi realizzati col contributo del governo diventeranno i poliziotti del futuro. L'obiettivo di Seoul è il 2011, ma i primi security robot sperimentali inizieranno a fare ronde notturne già dal 2010.

Pattuglieranno i quartieri, forniranno informazioni ai cittadini ed in certi casi potranno essere utilizzati per stroncare attività criminali con l'uso della forza. Ma niente paura: i robot saranno autosufficienti ma rimarranno sempre sotto il controllo di sguardi umani. "Avranno un collegamento stabile al sistema telematico statale", sostiene un portavoce del ministero dell'informatica e delle comunicazioni, "totalmente programmabili e guidabili da operatori remoti".

Naturalmente l'aspetto dei roboagenti coreani non sarà simile a quello diffuso da una certa cinematografia americana e potrà variare di volta in volta secondo le circostanze. Stando ad alcune indiscrezioni pubblicate dal portale
Hankooki, i robot saranno equipaggiati di arti meccanici e potranno muoversi sfruttando la combinazione di ruote e cingoli. La loro forma potrà ricordare quella di un quadrupede di medie dimensioni, così come quella di uno scatolone semovente.

Il ministero della difesa sudcoreano ha stanziato l'equivalente di ben 30 milioni di euro per lo sviluppo di questa insolita squadra speciale di forze dell'ordine, totalmente costituita da macchine intelligenti. Un comitato di 40 esperti, presieduto da un apposito ufficio statale per la robotica, avrà il compito di elaborare progetti e prototipi: "Se tutto va bene", dichiara il responsabile Lee Ho Gil, "la produzione potrà iniziare già dall'anno prossimo".

Come reagirà la popolazione all'arrivo dei poliziotti di metallo e silicio? Oh Sang-rok, direttore generale del programma governativo per la robotica, è convinto che l'avvento definitivo degli automi nella società sudcoreana sia ormai "vicinissimo". Sarà un fenomeno che investirà contemporaneamente la vita dei cittadini e di intere porzioni della pubblica amministrazione: 64 automi sperimentali sono già utilizzati in altrettanti uffici statali e proprietà private, dove svolgono principalmente funzioni di sicurezza.

"A partire dal prossimo ottobre", dichiara Oh in un'intervista rilasciata alla stampa locale, "i sudcoreani potranno iniziare ad acquistare piccoli automi da utilizzare in ambito domestico". Il governo ha infatti finanziato copiosamente l'industria robotica, anche per contrastare l'agguerritissima concorrenza dei vicini giapponesi. "I robot prodotti in Corea del Sud costeranno fino a dieci volte meno rispetto a quelli prodotti in Giappone", conclude Oh.

Fonte: Punto Informatico

18 gennaio 2006

I prototipi dei droni nanotecnologici


Dal MIT un'altra applicazione di mini robot che avrà utilizzi in campo medico

Joseph Jacobson del MIT ha sviluppato un'applicazione costituita da piccoli robot in grado di assemblarsi secondo regole preimpostate; così, sono state approntate due squadre di mini-robot, la gialla e la verde, in cui ogni componente ha caratteristiche tali che si possono intersecare soltanto con altre ben determinate.

In questo modo si costruisce una sequenza concettualmente assai simile al DNA, in grado anche di imparare da eventuali errori di accoppiamento. La notizia è un qualcosa di davvero stupefacente, che va ben al di là del fatto semplice e crudo: si sta approntando un meccanismo tale che è davvero simile alla costituzione di un organismo vivente senziente, di dimensioni assai piccole; l'era della nanotecnologia irrompe e comincia a definire il prossimo presente, dopo che l'attuale è stato delineato dalla robotica e dall'informatizzazione.

Fonte: Corriere della Fantascienza


16 gennaio 2006

Una nano-batteria... nell'occhio

In futuro potrebbe alimentare una retina artificiale e contribuire a curare certe forme di cecità. Il progetto inaugurerà un nuovo centro di ricerca statunitense dedicato alla nanomedicina.

Albuquerque (USA) - Un team di ricercatori del Sandia National Laboratories, insieme a scienziati di altri istituti di ricerca americani, sta sviluppando una batteria nanometrica che in futuro potrebbe essere impiantata in un occhio per alimentare una retina artificiale.

Il progetto verrà condotto in un nuovo centro di ricerca di prossima apertura, il National Center for Design of Biomimetic Nanoconductors (NCDBN), la cui costruzione è stata finanziata dal National Eye Institute of the National Institutes of Health (NIH) per sviluppare e sperimentare nuove nanotecnologie per la medicina.

L'NCDBN, con sede nell'università Urbana-Champaign dell'Illinois, controllerà l'intero ciclo di sviluppo, che va dall'ideazione fino alla produzione, dei dispositivi medici basati sulle nanotecnologie. Il primo obiettivo del nuovo istituto di ricerca sarà quello di progettare una nuova classe di dispositivi capaci di generare elettricità. Il fabbisogno di elettricità è da considerare primario nel caso in cui non ci sia possibilità di alimentare tramite rete elettrica le apparecchiature. Inoltre, la possibilità di fornire dispositivi che vengano integrati all'interno di un sistema vivente, detta la necessità di trovare fonti diverse di alimentazione.

Per questo motivo, le batterie che alimenteranno tutte le apparecchiature che il centro di ricerca svilupperà, saranno delle bio-batterie, capaci di immagazzinare elettricità direttamente dal corpo umano. Infatti, il progetto
della retina artificiale non potrebbe essere completo se non vi fosse un'alimentazione di tipo biologico.

Insieme alle retine artificiali, le nano-batterie potrebbero contribuire a risolvere certi tipi di cecità causati dalla degenerazione maculare. Il gruppo di scienziati del Sandia si occuperà in modo particolare di progettare al computer modelli tridimensionali della batteria molecolare, e simulare la sua interazione con la retina artificiale e l'occhio. Ma i campi di applicazione della bio-batteria potrebbero essere ben più ampi: questa potrebbe infatti alimentare un'ampia varietà di microscopici chip in grado di curare o alleviare certe malattie e infermità.

Per giungere alla progettazione di questi dispositivi, Susan Rempe, responsabile del gruppo di ricerca, afferma quanto sia importante l'apporto fornito dai programmi di modellazione grafica. "I nostri esperti di modellazione ci facilitano il compito mostrandoci come le strutture riescano a lavorare assieme. Le informazioni che riceviamo da questi programmi ci fanno capire quanta energia è necessaria per lo spostamento di determinate componenti e quindi di quale tipo di microbatteria è necessaria".

La grande utilità dei software di modellazione e previsione è dimostrata anche "dalla possibilità di visualizzare su schermo ciò che si riesce ad immaginare e quindi, successivamente, a progettare".

Il team della Rempe conta di riuscire presto a sviluppare nuovi dispositivi impiantabili capaci di sopperire alle funzioni biologiche che risultano lese o addirittura mancanti in alcuni soggetti.

Interessante notare che tutti i software di grafica sui quali lavorano i ricercatori del centro di ricerca di Sandia utilizzano sistemi operativi basati su Linux.

L'NCDBN è solamente uno dei tasselli del grande mosaico che, con un fondo di 43 miliardi di dollari, fa parte del programma di ricerca sulle nanotecnologie inaugurato nel 2003 dagli USA con il progetto di ricerca medica. Un progetto che presto si arricchirà di altri due sedi presso l'University of California a San Francisco e la Columbia University di New York.

Fonte: Punto Informatico

15 gennaio 2006

Il pc sente quando ti emozioni

Un computer in grado di rispondere agli stati emotivi di chi lo utilizza. Sarà presentato il prossimo marzo al Cebit

BERLINO - Il lavoro al computer rende spesso nervosi e crea frustrazione, tantopiù se non si ha grande confidenza con programmi e applicazioni varie. Non è raro infatti che, trovandosi di fronte alle incomprensibili dinamiche del cervellone elettronico, chi utilizza il Pc arrivi perfino a odiare tale strumento, al punto da desiderare addirittura di farlo a pezzi.

FRUSTRAZIONE ADDIO - Presto però, grazie al lavoro dei ricercatori del Fraunhofer Institute for Computer Graphics Research, avremo a disposizione computer che saranno in grado di sentire il nostro stato d’animo e “venirci incontro” prima che la rabbia prenda il posto della frustrazione. Tutto ciò sarà possibile grazie a speciali equipaggiamenti (dei guanti “sensibili”, una videocamera per rilevare la postura, sensori vari per altri rilevamenti) attraverso i quali il nuovo computer delle emozioni – che sarà presentato all’edizione 2006 del CeBIT, il prossimo marzo - potrà registrare il battito cardiaco, la pressione sanguigna, la temperatura corporea o la frequenza del respiro di chi in quel momento è seduto di fronte al monitor, e in base a tali dati stabilire poi quale sia il suo umore. Così, attraverso l’analisi dello stato emotivo, l’assistente digitale sarà in grado di collaborare con l’utente rispondendo alle sue richieste in modo mirato - a seconda del maggiore o minore livello di stress rilevato - portandolo alla rapida risoluzione di problemi ed errori.

INTERAZIONE ANTISTRESS - Gli esperti ritengono che l’interazione “emotiva” con la macchina metta a proprio agio l’individuo, rendendolo più sicuro di sé. In questo caso, quindi, la capacità di seguire e analizzare passo dopo passo l’attività dell’utilizzatore permetterà al computer di “salvarsi la pelle” - evitando che mouse, tastiere e quant’altro finiscano scaraventati a terra durante un eccesso d’ira - ma al tempo stesso consentirà all’utente di comprendere più a fondo il funzionamento di hardware e software. La maggiore conoscenza porterà quindi a commettere meno errori e, di conseguenza, a non desiderare l’annientamento del povero, sensibile Pc.

Fonte: Corriere della Sera

10 gennaio 2006

Chip sotto pelle, crescono i fan negli Usa

In Rete testimonianze, foto e video di quanti si sono fatti impiantare ilsilicio per poter fare a meno di chiavi e password

MILANO - Password e chiavi di metallo sono reperti quasi da museo per Amal Graafstra, imprenditore ventinovenne di Vancouver. Per accedere al suo pc o aprire la porta di casa, gli basta infatti soltanto un cenno della mano. Tutto merito del chip che si è fatto impiantare sottopelle: più piccolo di un chicco di riso, dura una vita. Nel suo blog, il giovane canadese racconta per filo e per segno la sua esperienza con tanto di foto e video dell'«operazione». E si dice soddisfatto per aver convinto la sua ragazza, pure lei ora in grado di aprire la porta di casa con la sola imposizione della mano. Un intervento che non ha nulla di pionieristico, anzi. Sembra piuttosto destinato a diventare una nuova moda, la nuova frontiera dopo il piercing.


IL POPOLO DEI CHIP SOTTOPELLE - Basta dare un'occhiata al forum per rendersene conto. Sono decine gli entusiasti del nuovo sistema di identificazione a radiofrequenza Rfid. «Sembra di avere una sorta di potere magico» commenta Mikey Sklar, un ventottenne di Brooklyn. «Abracadabra e la porta si apre, il computer si accende». E' stato un chirurgo di Los Angels a impiantargli il chip. Lukas invece rivela che ha fatto tutto da solo nel giugno scorso. C'è chi esibisce link a video (clicca per guardare) e foto (clicca per vedere). E chi lancia un annuncio: «Cerco persone in Florida con chip sottopelle. Mi piacerebbe sentire le loro storie, voglio scrivere un racconto sulle potenzialità di questa tecnologia». Firmato Steveg. Un altro incita i partecipanti a fargli gli auguri: «Ho trovato un chirurgo disponibile. Giovedì mi faccio fare l'impianto, auguratemi in bocca al lupo».

DUE DOLLARI PER IL CHIP - Sul forum si trovano anche le indicazioni per il kit: bastano due dollari per portarsi a casa il chip, mentre ne occorrono almeno 50 per il lettore, da installare nei dispositivi con cui si vuole interagire, dai pc alle porte.

COME FUNZIONA - L'insieme funziona così: un piccolo circuito elettronico presente nel chip Rfid (e normalmente inserito in un piccolo involucro di plastica chiamato tag) rimane in "ascolto" di un segnale radio trasmesso da un apposito lettore. Quando il circuito "sente" il segnale ne rimanda indietro a sua volta uno contenente il numero identificativo del chip o altre informazioni. A questo punto, ricevuta la risposta, il lettore dà l'ordine di aprire porte, pc o altro.

RISERVE - Non mancano sul forum interventi più prudenti: «Finora il sistema è stato testato soltanto su animali che non vivono più di 15 anni: non possiamo quindi ancora sapere che effetti possa avere sul lungo periodo. Il silicio è tossico!» grida allarmato un forumista. Poi c'è chi ricorda il rischio della privacy violata («i dati del potrebbero essere decodificati da altri lettori»). Ed ecco la trovata: «Tranquilli, sto realizzando un giubbotto che, a comando, scherma le onde radio».

Fonte: Corriere della Sera

05 gennaio 2006

Primo organo creato da staminali

È una ghiandola mammaria che produce latte. L'esperimento sui topi. Bordignon: «Dobbiamo imparare a controllarne la crescita»

La «fabbrica degli organi» comincia a muovere i primi passi. Prova e riprova, finalmente qualcuno c'è riuscito: da una cellula staminale adulta si è creato un organo funzionante. Con le diverse cellule specializzate (derivate dalla stessa staminale) al posto giusto per svolgere la loro complessa e sinergica funzione. Una ghiandola mammaria che produce latte. Il tutto nei topi. Per ora. Il lavoro è pubblicato dalla prestigiosa rivista scientifica Nature. E la notizia fa effetto, non solo agli addetti ai lavori: per la prima volta una sola cellula staminale è riuscita e rigenerare un intero organo in un animale vivo, la ghiandola mammaria di un topo. «Non parlerei di organo ma di tessuto mammario funzionante — avverte Claudio Bordignon, direttore scientifico dell'Istituto San Raffaele di Milano, esperto a livello internazionale di terapia genica e di staminali —. E', comunque, un lavoro fondamentale. Un passo avanti su cui lavorare». Il risultato, che promette di avere ricadute interessanti anche nella ricerca sui meccanismi di formazione dei tumori, è stato raggiunto da una collaborazione scientifica tra Australia, Canada e Stati Uniti, coordinata da Jane Visvader, dell'Istituto di ricerca medica «Walter and Eliza Hall» di Parkville (Australia).

ISOLAMENTO E TRAPIANTO - Gli studiosi sono riusciti prima ad isolare le cellule staminali dalla ghiandola mammaria di un topo e quindi le hanno marcate in modo da renderle riconoscibili in ogni fase successiva dell'esperimento. Quindi le hanno trapiantate in topi vivi, nei quali le cellule hanno cominciato a moltiplicarsi fino a formare una ghiandola mammaria completa e perfettamente funzionante, in grado di produrre latte. Moltiplicarsi e differenziarsi (o meglio specializzarsi) nelle varie componenti attive o strutturali di una ghiandola mammaria. La «marcatura» delle cellule staminali iniziali con un frammento di Dna poi riconoscibile è un «trucco» delle sperimentazioni di questo genere: serve a dimostrare che non sono entrate in gioco altre cellule dell'animale in cui sono state «iniettate» le staminali. Cellule, per esempio, delle ghiandole mammarie. E questo per verificare che il tessuto creato abbia tutto la stessa matrice d'origine. E' un punto chiave della validazione del lavoro. «Il nostro studio — spiega Jane Visvader — fornisce la prima descrizione, per quanto ci risulta, della ricostituzione di un intero organo a partire da una singola cellula staminale epiteliale». In topi utilizzati come modello del tumore del seno, i ricercatori si sono accorti inoltre che cellule staminali di questo tipo erano più numerose nel tessuto pre-canceroso del seno: un'osservazione che suggerisce come queste cellule potrebbero essere coinvolte nella comparsa di tumori.

ARMA A DOPPIO TAGLIO - «Ecco uno dei problemi da studiare — interviene Bordignon —. Il modello messo a punto dal gruppo guidato dalla Visvader può essere definito il prototipo di un'arma a doppio taglio». Che cosa vuol dire? Bordignon entra nel merito: «Noi sappiamo che le staminali hanno un grandissimo potenziale, ma ancora non siamo in grado di controllarle così come avviene in natura. In altri termini, il tessuto mammario creato funziona ma non risponde alla programmazione di un organismo». Per esempio, in una bambina la mammella si sviluppa senza però essere attiva. Poi, nella donna fertile, è pronta a secernere latte, ma resta ferma fino a quando non c'è una gravidanza e un parto. E, alla fine, a bimbo svezzato torna silente. Insomma, le cellule rispondono a comandi di attivazione e di inibizione fondamentali. «Se noi non siamo in grado di controllare le fasi di trasformazione e crescita delle staminali — conclude Bordignon — rischiamo di innescare una mutazione in cellule precancerose, non più sensibili ai meccanismi di inibizione e blocco».

Fonte: Corriere della Sera