È quello contro il papilloma virus, che causa il 70 per cento dei tumori al collo dell'utero. Se verrà approvato, prima negli Stati Uniti e nel 2007 in Europa, sarà una rivoluzione. Perché potrà salvare mezzo milione di donne ogni anno.
Un'iniezione e il rischio, e la paura, di ammalarsi di cancro scompaiono. Sarebbe bello se fosse possibile. E per un particolare tipo di tumore potrebbe succedere presto. Dopo anni di studi, osservazioni e sperimentazioni su volontari, è pronto il vaccino contro il tumore al collo dell'utero. A giugno negli Stati Uniti, e all'inizio del 2007 in Europa, le agenzie sanitarie si pronunceranno sulla messa in commercio dei vaccini preventivi contro il papilloma virus, responsabile della quasi totalità di questi tumori. Per la prima volta appare evitabile una malattia che colpisce ogni anno quasi mezzo milione di donne nel mondo.
Si sa che i vaccini (due in arrivo, prodotti da due diverse industrie farmaceutiche) funzionano nel prevenire l'infezione, forse al di là delle aspettative degli stessi ricercatori, dato che secondo gli studi conferiscono una protezione contro il virus vicina al 100 per cento. Nel caso in cui vengano approvati (gli esperti lo danno per scontato) si aprirà il problema di come utilizzare questa nuova arma, che non servirà a curare chi è già malato, o anche solo infettato dal virus, ma a prevenire l'infezione che, come è noto da trent'anni, è alla base dello sviluppo del tumore al collo dell'utero.
Questo tipo di cancro provoca ogni anno 230 mila morti ed è la prima causa che riduce la vita delle donne nei paesi in via di sviluppo. Diversa è la situazione nei paesi industrializzati, Italia compresa, dove colpisce circa 3.500 donne con 1.800 decessi l'anno. «Non perché da noi sia meno diffuso, ma perché il Pap test, da anni, consente di individuare le lesioni precancerose e di trattarle, prima che si trasformino in tumori veri e propri» spiega Silvia Franceschi, responsabile del Gruppo infezioni e cancro dell'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) di Lione.
Alle donne italiane vengono diagnosticate ogni anno almeno 120 mila lesioni neoplastiche, cui seguono le biopsie per verificare il grado di malignità e i trattamenti. «I carcinomi invasivi sono solo la punta visibile di una grossa base di lesioni che comportano un enorme costo emotivo e medico» aggiunge Franceschi.
Su scala globale l'introduzione di un vaccino rappresenterebbe una rivoluzione per la salute pubblica. «Uno degli interventi più importanti in questo campo» ribadisce Alberto Mantovani, direttore scientifico dell'Istituto Humanitas di Rozzano, immunologo all'Università di Milano e uno dei maggiori studiosi dei legami tra cancro e infiammazione.
Il tumore del collo dell'utero è causato da una famiglia di virus, quelli del papilloma, Human papilloma virus o Hpv in sigla. Questi virus, molto comuni, si trasmettono per via sessuale, ma anche attraverso il semplice contatto della pelle. A metà Ottocento un medico veronese, Domenico Rigoni-Stern, aveva osservato che mentre le donne sposate venivano colpite da questo tumore, alle suore capitava molto più raramente. Nel 1975, per la prima volta, il virologo tedesco Harald zur Hausen associò la presenza del virus con lo sviluppo del tumore alla cervice uterina.
«Ci sono voluti altri dieci anni per stabilire senza ombra di dubbio questa associazione, dieci ancora per identificare i tipi di Hpv coinvolti, infine altri dieci, e siamo a oggi, per arrivare alle soglie di un vaccino» racconta Mantovani. Delle diverse varietà del virus, la maggior parte è legata a malattie benigne come i condilomi, cioè le verruche genitali. Alcune varianti più aggressive provocano lo sviluppo di tumori e il 70-80 per cento circa dei casi di cancro della cervice uterina è legato a un paio di questi tipi, chiamati Hpv 16 e Hpv 18.
Secondo gli studi condotti, oltre metà della popolazione, uomini e donne, entra in contatto con il virus almeno una volta nella vita. Nell'80 per cento dei casi l'infezione guarisce spontaneamente entro un anno senza che la persona infettata se ne accorga. In una piccola percentuale, circa il 5 per cento, invece, l'infezione diventa cronica. E se il tipo di virus è tra i più aggressivi può darsi che si sviluppino lesioni precancerose e, nel tempo, un tumore.
Dei due vaccini in arrivo contro l'infezione da papilloma virus, uno, messo a punto dalla GlaxoSmithKline, che ha richiesto l'autorizzazione in Europa, protegge contro le varianti più pericolose dell'Hpv, la 16 e la 18, e forse anche contro altri due tipi oncogeni simili (Hpv 31 e 45); l'altro, della Merck, oltre che contro le due varianti cancerogene immunizza contro i ceppi del virus che provocano i condilomi.
Il vaccino, di cui tre istituti scientifici, due in America e uno in Australia, rivendicano la paternità, funziona perché mima la struttura del virus. «Non contiene l'informazione genetica, ma è fatto come il virus stesso, in pratica è il suo guscio esterno, e l'organismo gli scatena contro una forte risposta immunitaria» spiega Mantovani.
Negli ultimi cinque anni diverse sperimentazioni cliniche su migliaia di donne in vari paesi hanno appurato che la protezione contro il virus si avvicina al 100 per cento. La vaccinazione consiste in tre iniezioni da ripetere nell'arco di sei mesi. I dubbi rimangono su quanto a lungo valga la protezione, anche se uno studio su The Lancet ha riferito che per il vaccino della Glaxo dura almeno quattro anni e mezzo.
In Italia una commissione al ministero della Salute sta valutando le strategie da adottare con l'arrivo dei vaccini anti Hpv. «Occorrerà decidere se lasciare la scelta alla libera iniziativa o se procedere a una vaccinazione di massa» prevede Franceschi, che fa parte della commissione del ministero e propende per quest'ultima ipotesi. La materia è delicata, anzitutto perché la vaccinazione è destinata a ragazze adolescenti che non hanno ancora iniziato l'attività sessuale. Si sa che l'infezione viene contratta nelle prime fasi della vita sessuale e che la risposta degli anticorpi è maggiore nelle ragazzine che nelle giovani donne.
Qualcuno però pone problemi etici. È stato detto che vaccinare ragazzine contro un'infezione che si trasmette sessualmente sarebbe come dare il via libera al sesso; alcune associazioni in America si sono già espresse contro la promozione della vaccinazione di massa. Problemi che toccano meno da questa parte dell'oceano, anche se ci sono altre questioni da affrontare.
Per esempio: dovrebbero essere vaccinate soltanto le femmine o anche i maschi, visto che sono loro a trasmettere l'infezione? «Perché si fermi la catena dell'infezione, come è accaduto per esempio nel caso del vaiolo, occorre che venga vaccinato almeno il 70 per cento della popolazione. Lasciato all'iniziativa personale il vaccino non raggiungerebbe probabilmente più del 10-20 per cento della popolazione» fa notare Franceschi.
La vaccinazione non rende superfluo, secondo gli esperti, lo screening con il Pap test, ormai pratica comune in molte regioni italiane. Ma si porrà comunque il problema di come integrare le due forme di protezione. «I due vaccini sono efficaci solo contro due delle varietà del virus associate al cancro e, anche se rappresentano il 70 per cento del totale, non si dovrebbe abbassare la guardia contro i tumori provocati da altri tipi» sottolinea Colomba Giorgi, dirigente della ricerca al dipartimento di malattie infettive, parassitarie e immunomediate dell'Istituto superiore di sanità. «Inoltre, le donne non vaccinate dovrebbero comunque continuare lo screening con il Pap test».
L'altro problema, enorme, sta nei costi. Non c'è ancora un prezzo ufficiale del vaccino, anche se si parla di 300-500 dollari a persona. Per i paesi in via di sviluppo, dove non esiste screening e il vaccino avrebbe la massima utilità, si stanno muovendo alcune associazioni, come la Bill Gates Foundation e l'Oms. Nei paesi ricchi, come l'Italia, molto dipenderà dalla scelta se optare per una vaccinazione di massa, e in tal caso il prezzo verrebbe negoziato a livello ministeriale, o venderlo in farmacia.
Fonte: Panorama
Un'iniezione e il rischio, e la paura, di ammalarsi di cancro scompaiono. Sarebbe bello se fosse possibile. E per un particolare tipo di tumore potrebbe succedere presto. Dopo anni di studi, osservazioni e sperimentazioni su volontari, è pronto il vaccino contro il tumore al collo dell'utero. A giugno negli Stati Uniti, e all'inizio del 2007 in Europa, le agenzie sanitarie si pronunceranno sulla messa in commercio dei vaccini preventivi contro il papilloma virus, responsabile della quasi totalità di questi tumori. Per la prima volta appare evitabile una malattia che colpisce ogni anno quasi mezzo milione di donne nel mondo.
Si sa che i vaccini (due in arrivo, prodotti da due diverse industrie farmaceutiche) funzionano nel prevenire l'infezione, forse al di là delle aspettative degli stessi ricercatori, dato che secondo gli studi conferiscono una protezione contro il virus vicina al 100 per cento. Nel caso in cui vengano approvati (gli esperti lo danno per scontato) si aprirà il problema di come utilizzare questa nuova arma, che non servirà a curare chi è già malato, o anche solo infettato dal virus, ma a prevenire l'infezione che, come è noto da trent'anni, è alla base dello sviluppo del tumore al collo dell'utero.
Questo tipo di cancro provoca ogni anno 230 mila morti ed è la prima causa che riduce la vita delle donne nei paesi in via di sviluppo. Diversa è la situazione nei paesi industrializzati, Italia compresa, dove colpisce circa 3.500 donne con 1.800 decessi l'anno. «Non perché da noi sia meno diffuso, ma perché il Pap test, da anni, consente di individuare le lesioni precancerose e di trattarle, prima che si trasformino in tumori veri e propri» spiega Silvia Franceschi, responsabile del Gruppo infezioni e cancro dell'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) di Lione.
Alle donne italiane vengono diagnosticate ogni anno almeno 120 mila lesioni neoplastiche, cui seguono le biopsie per verificare il grado di malignità e i trattamenti. «I carcinomi invasivi sono solo la punta visibile di una grossa base di lesioni che comportano un enorme costo emotivo e medico» aggiunge Franceschi.
Su scala globale l'introduzione di un vaccino rappresenterebbe una rivoluzione per la salute pubblica. «Uno degli interventi più importanti in questo campo» ribadisce Alberto Mantovani, direttore scientifico dell'Istituto Humanitas di Rozzano, immunologo all'Università di Milano e uno dei maggiori studiosi dei legami tra cancro e infiammazione.
Il tumore del collo dell'utero è causato da una famiglia di virus, quelli del papilloma, Human papilloma virus o Hpv in sigla. Questi virus, molto comuni, si trasmettono per via sessuale, ma anche attraverso il semplice contatto della pelle. A metà Ottocento un medico veronese, Domenico Rigoni-Stern, aveva osservato che mentre le donne sposate venivano colpite da questo tumore, alle suore capitava molto più raramente. Nel 1975, per la prima volta, il virologo tedesco Harald zur Hausen associò la presenza del virus con lo sviluppo del tumore alla cervice uterina.
«Ci sono voluti altri dieci anni per stabilire senza ombra di dubbio questa associazione, dieci ancora per identificare i tipi di Hpv coinvolti, infine altri dieci, e siamo a oggi, per arrivare alle soglie di un vaccino» racconta Mantovani. Delle diverse varietà del virus, la maggior parte è legata a malattie benigne come i condilomi, cioè le verruche genitali. Alcune varianti più aggressive provocano lo sviluppo di tumori e il 70-80 per cento circa dei casi di cancro della cervice uterina è legato a un paio di questi tipi, chiamati Hpv 16 e Hpv 18.
Secondo gli studi condotti, oltre metà della popolazione, uomini e donne, entra in contatto con il virus almeno una volta nella vita. Nell'80 per cento dei casi l'infezione guarisce spontaneamente entro un anno senza che la persona infettata se ne accorga. In una piccola percentuale, circa il 5 per cento, invece, l'infezione diventa cronica. E se il tipo di virus è tra i più aggressivi può darsi che si sviluppino lesioni precancerose e, nel tempo, un tumore.
Dei due vaccini in arrivo contro l'infezione da papilloma virus, uno, messo a punto dalla GlaxoSmithKline, che ha richiesto l'autorizzazione in Europa, protegge contro le varianti più pericolose dell'Hpv, la 16 e la 18, e forse anche contro altri due tipi oncogeni simili (Hpv 31 e 45); l'altro, della Merck, oltre che contro le due varianti cancerogene immunizza contro i ceppi del virus che provocano i condilomi.
Il vaccino, di cui tre istituti scientifici, due in America e uno in Australia, rivendicano la paternità, funziona perché mima la struttura del virus. «Non contiene l'informazione genetica, ma è fatto come il virus stesso, in pratica è il suo guscio esterno, e l'organismo gli scatena contro una forte risposta immunitaria» spiega Mantovani.
Negli ultimi cinque anni diverse sperimentazioni cliniche su migliaia di donne in vari paesi hanno appurato che la protezione contro il virus si avvicina al 100 per cento. La vaccinazione consiste in tre iniezioni da ripetere nell'arco di sei mesi. I dubbi rimangono su quanto a lungo valga la protezione, anche se uno studio su The Lancet ha riferito che per il vaccino della Glaxo dura almeno quattro anni e mezzo.
In Italia una commissione al ministero della Salute sta valutando le strategie da adottare con l'arrivo dei vaccini anti Hpv. «Occorrerà decidere se lasciare la scelta alla libera iniziativa o se procedere a una vaccinazione di massa» prevede Franceschi, che fa parte della commissione del ministero e propende per quest'ultima ipotesi. La materia è delicata, anzitutto perché la vaccinazione è destinata a ragazze adolescenti che non hanno ancora iniziato l'attività sessuale. Si sa che l'infezione viene contratta nelle prime fasi della vita sessuale e che la risposta degli anticorpi è maggiore nelle ragazzine che nelle giovani donne.
Qualcuno però pone problemi etici. È stato detto che vaccinare ragazzine contro un'infezione che si trasmette sessualmente sarebbe come dare il via libera al sesso; alcune associazioni in America si sono già espresse contro la promozione della vaccinazione di massa. Problemi che toccano meno da questa parte dell'oceano, anche se ci sono altre questioni da affrontare.
Per esempio: dovrebbero essere vaccinate soltanto le femmine o anche i maschi, visto che sono loro a trasmettere l'infezione? «Perché si fermi la catena dell'infezione, come è accaduto per esempio nel caso del vaiolo, occorre che venga vaccinato almeno il 70 per cento della popolazione. Lasciato all'iniziativa personale il vaccino non raggiungerebbe probabilmente più del 10-20 per cento della popolazione» fa notare Franceschi.
La vaccinazione non rende superfluo, secondo gli esperti, lo screening con il Pap test, ormai pratica comune in molte regioni italiane. Ma si porrà comunque il problema di come integrare le due forme di protezione. «I due vaccini sono efficaci solo contro due delle varietà del virus associate al cancro e, anche se rappresentano il 70 per cento del totale, non si dovrebbe abbassare la guardia contro i tumori provocati da altri tipi» sottolinea Colomba Giorgi, dirigente della ricerca al dipartimento di malattie infettive, parassitarie e immunomediate dell'Istituto superiore di sanità. «Inoltre, le donne non vaccinate dovrebbero comunque continuare lo screening con il Pap test».
L'altro problema, enorme, sta nei costi. Non c'è ancora un prezzo ufficiale del vaccino, anche se si parla di 300-500 dollari a persona. Per i paesi in via di sviluppo, dove non esiste screening e il vaccino avrebbe la massima utilità, si stanno muovendo alcune associazioni, come la Bill Gates Foundation e l'Oms. Nei paesi ricchi, come l'Italia, molto dipenderà dalla scelta se optare per una vaccinazione di massa, e in tal caso il prezzo verrebbe negoziato a livello ministeriale, o venderlo in farmacia.
Fonte: Panorama
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